Bye bye doctor!

di Barbara Basile

Il drop-out in psicoterapia: quali fattori predicono l’abbandono del paziente?

Uno tra i più gradi timori di ogni psicoterapeuta è il drop-out, ovvero l’abbandono precoce, a volte inaspettato, della terapia da parte del paziente. Questa esperienza spesso viene vissuta dal clinico come un vero e proprio fallimento, sia sul piano professionale che su quello umano. Inoltre, la possibilità di drop-out rappresenta un indice importante, tanto quanto l’efficacia di una terapia, anche per chi si rivolge a uno specialista per un problema psicologico.

Ma quali sono i fattori che lo predicono? il drop-out è solo colpa del terapeuta?

Diverse ricerche hanno studiato questo fenomeno, in realtà abbastanza frequente, identificando alcune variabili che sembrano predire l’interruzione ante tempore di un percorso psicoterapico. Queste includono fattori che riguardano il paziente, il terapeuta e il modello clinico usato. Nel primo caso, l’appartenere a una minoranza etnica, uno status socio-economico basso e la co-occorrenza di un disturbo di personalità predicono il drop-out, in un range che varia dal 20% al 33%. Contrariamente ai timori più comuni, invece, le caratteristiche del terapeuta non sembrano avere un grande ruolo, né in termini di età che di anni di esperienza clinica (il classico timore dei giovani professionisti che credono che la loro giovane età possa spingere il paziente a lasciare la terapia).

Un altro fattore che, in base al disturbo del paziente, può influire sull’interruzione del trattamento è il suo orientamento teorico. In una recentissima meta-analisi del ricercatore Joshua K. Swift sono stati confrontati i livelli di drop-out in diversi tipi di trattamento, considerando specifiche categorie diagnostiche. Mentre non sono state rilevate differenze tra i diversi approcci esaminati (psicodinamico, integrato, cognitivo-comportamentale, solo cognitivo, solo comportamentale, dialettico-comportamentale, inter-personale e di sostegno) per disturbi come l’ansia generalizzata, il disturbo ossessivo compulsivo, la fobia sociale, il disturbo da attacchi di panico, le psicosi e i disturbi somatoformi; sono invece state identificate delle differenze significative negli indici di drop-out per la depressione, il disturbo post-traumatico (DPTS) e i disturbi del comportamento alimentare (DCA). In particolare, nella depressione, la percentuale di drop-out più bassa (del 10%) è stata osservata nel trattamento integrato (inteso come l’utilizzo congiunto di più tecniche assieme, come quelle cognitive, psicodimaniche e umanistiche), mentre nei DCA la percentuale di interruzione più bassa (del 5%) era relativa  all’intervento dialettico-comportamentale (DBT), che prevede un tipo di intervento molto strutturato e contenitivo. Nel caso del DPTS, nuovamente, l’approccio integrato presentava l’indice di interruzione più basso (dell’8.8%), con, a seguire, a pari merito, la terapia cognitiva, l’eye movement desensitization and reprocessing (EMDR) e il rilassamento.

Questi dati indicano come, rispetto alle variabili che ad oggi è stato possibile identificare, misurare, e quindi studiare, sono soprattutto le caratteristiche del paziente, il suo disturbo ed, eventualmente, il tipo di intervento clinico, a predire la probabilità di drop-out. Inoltre, per alcune patologie come la depressione o il DPTS, sembrerebbe che il trattamento integrato, in cui vengono usate più tecniche, come per esempio, la mindfulness, la ri-elaborazione di eventi passati traumatici o la modificazione delle distorsioni cognitive, sia più influente nella riduzione della probabilità di drop-out.

 

Per approfondimenti:

Aringolo, Cognitivismo clinico (2006) 1, 41-56.

Cooper & Conklin, Clinical Psychology Review 40 (2015) 57–65.

Swift, Journal of Psychotherapy Integration (2014) 24, 3, 193–207.

 

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