ERP o non ERP, questo è il dilemma

di Benedetto Astiaso Garcia

L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani

L’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) consiste nell’esporre il paziente al pensiero, all’immagine o all’evento temuto per un tempo superiore a quello che normalmente riesce a tollerare (esposizione) e nell’aumentare la resistenza all’impulso di mettere in atto i comportamenti cui abitualmente ricorre per contenere, prevenire o neutralizzare la minaccia temuta (prevenzione della risposta).

Benché sia risaputo che l’ERP sia un intervento evidence-supported indicato dalle linee guida internazionali come trattamento d’elezione per il Disturbo Ossessivo Compulsivo, per quali ragioni alcune ricerche ne evidenziano uno scarso impiego nella pratica clinica? 

Uno studio pilota sviluppato nel 2022 da Cosentino, Raimo, et al. si prefigge lo scopo di rispondere a tale quesito, indagando l’utilizzo dell’ERP tra gli psicologi cognitivisti italiani e valutandone la frequenza, le credenze associate alla messa in atto di tale pratica e il ruolo giocato dalle caratteristiche personali del terapeuta, quali la sensibilità al senso di colpa: come proposto da Sars e Van Minnen nel 2015 per l’anxiety sensitivity, viene ipotizzato dagli autori che anche la disposizione a prevenire ed evitare di sentirsi in colpa potrebbe indurre un mancato impiego della tecnica. 

Hanno preso parte a tale indagine 105 partecipanti, in prevalenza donne (74%) e di età compresa tra i 30 e i 40 anni (60%). I partecipanti, per la maggior parte esercitanti la libera professione (80%), per il 43% svolgono attività di psicoterapia da meno di cinque anni. 

Dai risultati, in linea con la letteratura internazionale, emerge come le credenze sull’efficacia dell’ERP e un atteggiamento favorevole al suo impiego correlino positivamente con la frequenza dell’utilizzo. Certamente d’interesse la correlazione negativa tra la sensibilità alla colpa e il ricorso all’ERP nel trattamento del DOC: come ipotizzano gli autori, probabilmente, il terapeuta, proprio come il paziente, al fine di evitare i propri stati di colpa tende a ricorrere a evitamenti e comportamenti protettivi, ad esempio per non sperimentare la responsabilità di avere un ruolo attivo nell’infliggere sofferenza al paziente e le eventuali conseguenze. 

Per quanto complessivamente il 65% dei terapeuti utilizzava l’ERP nel trattamento del DOC e circa il 40% nel trattamento degli altri disturbi d’ansia, i terapeuti con attività clinica inferiore ai cinque anni utilizzano in maniera nettamente minore tale tecnica: l’autoefficacia percepita dal terapeuta nella gestione delle situazioni complesse correla positivamente nell’utilizzo dell’esposizione. Come poter dunque favorire una maggiore disponibilità negli psicoterapeuti ad affidarsi a tale tecnica?

Rispondere a tale domanda solleva una questione quanto mai urgente e attuale: l’importanza di un adeguato e strutturato addestramento. Essere capaci di gestire situazioni complesse passa necessariamente attraverso la formazione in psicoterapia, condizione determinante per la crescita personale e lo sviluppo di competenze, atte a modificare credenze negative circa tale pratica e offrire uno specifico padroneggiamento della tecnica. È necessaria, dunque, una formazione valida che, accanto a una profonda conoscenza teorica, offra utili strumenti pratici per porre il professionista nella miglior condizione di esercitare l’esposizione con prevenzione della risposta, garantendo di conseguenza ai pazienti un trattamento di grandissima efficacia comprovata.

Gli psicologi per primi, molto spesso, sono spaventati dall’utilizzo di strumenti e tecniche che in realtà conoscono poco, timorosi di scottarsi attraverso la sofferenza del paziente. Una buona formazione in psicoterapia diviene l’unica modalità per danzare sui carboni ardenti. Precludersi all’utilizzo di una tecnica di acclarata efficacia, molto spesso a causa di una mancata formazione, significa compromettere la buona riuscita della terapia.  Come affermava George Orwell, “il primo compito delle persone intelligenti è la riaffermazione dell’ovvio”. Oggi più che mai, anche grazie alla ricerca Utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, siamo chiamati a difendere l’ovvio: una buona formazione degli specialisti. Cui prodest? Certamente ai pazienti. 

Per approfondimenti: 

Raimo, S., Battimiello, V., Biondi, D., Ciccarelli, M., Colardo, T., Riemma, D., Schiano Di Zenise, L., Gragnani, A., Scuotto, A., Cosentino, T., (2022). L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, Psicoterapia Cognitiva Comportamentale, 28 (3), 245- 260.

Cosentino, T., De Sanctis, B., Luppino, O., (2021). Le procedure comportamentali: esposizione con prevenzione della risposta. In: Perdighe, C., Gragnani, A., Psicoterapia Cognitiva, Raffaello Cortina Editore.

 

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Perfezionismo: la paura di sentirsi mediocri

di Giuseppe Grossi

C’è una crepa in ogni cosa. È da lì che entra la luce (Leonard Cohen)

Giorno dopo giorno apriamo le porte dei nostri studi interrogandoci su quelle che saranno le difficoltà che incontreremo, quale nuova sfida ci porterà il paziente della mattina e quello della sera. Ci ritroviamo a ragionare e riflettere tornando a casa in macchina, sul treno o sulla metro, cercando di trovare il capo che possa sciogliere la matassa. E così, da giorni, sono fermo a osservare, incantato, una nuova sfida. Ripercorro mentalmente i passaggi della terapia e i racconti di alcuni dei mei pazienti, pensando a quanto siano speciali.  Solo dopo mesi e ore di terapia mi ricordo quella posizione socratica che mi ha affascinato, spingendomi verso un modo di fare terapia in cui nulla è scontato. E inizio a ragionare sul perché dico questo: perché quando penso a Cristiana, Flavio o altri la prima cosa che mi viene da considerare è quanto siano speciali? Nello stesso momento in cui mi pongo la domanda nasce in me una sfida, un dibattito tra due forze opposte che mi catapultano in uno dei miti più amati e discussi da sempre: Narciso. Penso a lui e per un momento mi fermo sulla sua condanna di essere il più bello, tanto da ritenersi ed essere considerato unico e speciale. Poi torno con la mente a Cristiana, entro nella sua cameretta piena di specchi e la vedo con in mano una lametta e il desiderio di tagliare le sue parti imperfette, ciò che la renderebbero “mediocre”. Ripenso al continuo tentativo di buttare via quelle parti per essere migliore. Penso al suo disturbo alimentare e al desiderio di scomparire pur di non vedere quella imperfezione, pur di aumentare lo spazio tra le gambe e sentirsi per un attimo bella, migliore.  Immagino questo stato dissolversi nel disperato desiderio di fare ancora un po’ di più, un po’ più di prima. E così si riparte con uno sforzo ulteriore, con l’obiettivo più alto che la renderebbe ancora più bella. Inerme, la vedo arrivare a un inevitabile fallimento, la disperata conclusione che nulla la condurrà a quella perfezione. Disperata nel proprio dolore, Cristiana vaga sempre più nel buio, alla ricerca del proprio valore, confrontandosi con un’immagine che è semplicemente il frutto delle parole del suo profeta, colui che la vede essere il 10 a scuola, sempre più magra e da tutti amata. Siamo sicuri che ciò che ha spinto Narciso ad annegare nello stagno sia la sua vanità? Che Cristiana abbia assunto 30 pasticche di Xanax per amore della sua immagine riflessa negli specchi della cameretta, tra foto ricordo e pagelle incorniciate? Vi sembra ovvio pensare che continui a tagliarsi perché innamorata della sua perfezione e non che quello specchio, quel voto a scuola e altro abbia svelato la sua vera natura e la normale imperfezione? “Preferisco essere niente che essere mediocre”: queste le parole di Cristiana, dopo aver tentato più volte di togliersi la vita. Oggi lei, come molti, si trova a combattere contro la necessità di sentirsi speciale, di essere perfetta. Cosa avrebbe detto Liriope se tornando a casa il figlio Narcisio le avesse raccontato di quella imperfezione riflessa nelle acque dello stagno? Cosa sarebbe accaduto se Liriope non avesse tolto tutti gli specchi, dando a Narciso la possibilità di osservare la sua reale natura e forse anche una normale imperfezione? E ancora, facendo un piccolo passo indietro, cosa sarebbe accaduto a Narciso se il profeta non avesse raccontato a sua madre quel tragico destino? Troppo spesso ci sforziamo di essere quello che crediamo di dovere essere, incastrati dalle paure più profonde e lontani dai desideri personali, convinti che esista un solo modo per essere felici.

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Neurofeedback e psicoterapia

di Andrea Paulis

Nuove prospettive di applicazione nella pratica clinica

Il Neurofeedback è una tecnica di neuromodulazione “endogena”, basata sul condizionamento operante, attraverso cui la persona che vi si sottopone apprende a modificare volontariamente la propria attività corticale. Esistono diverse tipologie di applicazione della tecnica ma la più comunemente utilizzata, anche per l’agilità della strumentazione, è l’EEG-Neurofeedback (EEG-NFB; NFB). La tecnologia si basa sulla restituzione di una risposta (visiva o sonora) in tempo reale e in funzione della quale il paziente ottiene informazioni circa la propria attività elettroencefalografica (EEG), monitorata durante il corso della seduta grazie a degli elettrodi posizionati sulla cute in specifiche aree del capo. Pertanto, ogni volta che la persona riuscirà a modulare la propria attività neurale nella direzione obiettivo del trattamento riceverà un feedback positivo (ad esempio l’aumento del volume di uno stimolo sonoro rilassante), quando perderà lo stato raggiunto riceverà, invece, un feedback negativo (ad esempio l’abbassamento del volume di uno stimolo sonoro rilassante).

Questo tipo di training sembra aumentare la consapevolezza individuale circa la propria attività EEG e, nel tempo, sarebbe in grado di modificare l’organizzazione neurale promuovendo, quindi, la “plasticità cerebrale”. Tali meccanismi sono stati ampiamente studiati attraverso l’applicazione di differenti “protocolli” di NFB training, ciascuno caratterizzato da differenti posizionamenti degli elettrodi sullo scalpo, differenti bande di frequenza rinforzate e con differenti finalità cliniche.

Numerosi sono i disturbi, relativi sia all’età evolutiva sia all’età adulta, nei quali è stata documentata l’efficacia di tale trattamento; tuttavia, sembra lecito chiedersi se, al di là dell’etichetta diagnostica, esistano delle variabili “transdiagnostiche” (presenti in molteplici quadri psicopatologici) su cui il NFB sia in grado di agire.

Per rispondere a tale interrogativo, in alcuni lavori è stata studiata la correlazione tra sedute di NFB training e promozione di competenze di mentalizzazione (termine spesso utilizzato come sinonimo di “metacognizione”), ovvero quell’insieme di capacità riflessive che permettono alla persona di comprendere i pensieri, le emozioni, i desideri e i bisogni, propri e altrui, che sembrano essere compromesse in diversi disturbi mentali.

In particolare, nell’interessante studio condotto nel 2017 dai ricercatori Claudio Imperatori, Benedetto Farina e colleghi, si nota come a seguito di sole dieci sedute di NFB training, effettuate con l’applicazione del protocollo “Alpha/Theta” (mirato alla promozione di uno stato di rilassamento profondo), si sia registrato un significativo aumento delle competenze di mentalizzazione in un campione non clinico di 44 soggetti. Il costrutto è stato misurato attraverso il Mentalization Questionnaire (MZQ) e sembra che i miglioramenti nei punteggi da esso rilevati possano essere dovuti, secondo gli autori, alla promozione della connettività funzionale del “Default Mode Network” (un circuito di aree cerebrali, composto principalmente da: corteccia cingolata posteriore; corteccia prefrontale mediale; lobulo parietale inferiore) avvenuta durante le sedute di training.

Sempre nel 2017, un’ulteriore ricerca condotta da Enrico Maria Valenti, Alessandro Zarfati, Maria Sole Nicoli, Benedetto Farina e colleghi ha permesso di rilevare un miglioramento dei punteggi al MZQ a seguito di dieci sedute di Alpha/Theta NFB training in associazione ad altrettante sedute di psicoterapia Cognitivo Comportamentale. In questo caso, il campione sperimentale era composto da soggetti con diagnosi di disturbi appartenenti allo spettro impulsivo-compulsivo (un continuum psicopatologico che va da un polo, caratterizzato da elevata tendenza all’evitamento del pericolo, ad un altro, caratterizzato dalla ridotta capacità di evitamento del pericolo). I risultati mostrano miglioramenti anche nella regolazione emotiva e nella riduzione dell’impulsività non pianificativa.

I dati riportati, sebbene non scevri da limiti che ne circoscrivono la generalizzabilità, appaiono piuttosto illuminanti per via delle loro possibili implicazioni nella cura.

In conclusione, pur essendo necessari futuri studi che possano avvalorare e ampliare la letteratura in merito, sembra sensato ipotizzare che in specifici casi l’integrazione del NFB training con la pratica psicoterapeutica possa apportare ulteriori miglioramenti in termini di qualità, tempistiche ed efficacia ai già validati trattamenti di matrice Cognitivo Comportamentale.

Per approfondimenti:

Gevensleben H., Kleemeyer M., Rothenberger L.G., Studer P., Flaig-Rohr A., Moll G.H., Rothenberger A., Heinrich H. (2014). Neurofeedback in ADHD: further pieces of the puzzle. Brain Topography, 27(1): 20-32. doi: 10.1007/s10548-013- 0285-y.

Jeunet, C., Glize, B., McGonigal, A., Batail, J. M., & Micoulaud-Franchi, J. A. (2019). Using EEG-based brain computer interface and neurofeedback targeting sensorimotor rhythms to improve motor skills: Theoretical background, applications and prospects. Neurophysiologie Clinique, 49(2), 125-136.

Marzbani, H., Marateb, H. R., & Mansourian, M. (2016). Neurofeedback: a comprehensive review on system design, methodology and clinical applications. Basic and clinical neuroscience, 7(2), 143.

Semerari A., Carcione A., Dimaggio G., Nicolò G., Procacci M. (2007). Under- standing minds: different functions and different disorders? The contribution of psychotherapy research. Psychotherapy Research, 17(1): 106-119. doi: 10.1080/ 10503300500536953

Hausberg M.C., Schulz H., Piegler T., Happach C.G., Klopper M., Brutt A.L., Sam- met I., Andreas S. (2012). Is a self-rated instrument appropriate to assess men- talization in patients with mental disorders? Development and first validation of the mentalization questionnaire (MZQ). Psychotherapy Research: Journal of the Society for Psychotherapy Research, 22(6): 699-709. doi: 10.1080/10503307. 2012.709325

Imperatori, C., Della Marca, G., Amoroso, N., Maestoso, G., Valenti, E. M., Massullo, C., … & Farina, B. (2017). Alpha/theta neurofeedback increases mentalization and default mode network connectivity in a non-clinical sample. Brain topography30(6), 822-831.

Valenti, E. M., Zarfati, A., Nicoli, M. S., Onofri, M., Imperatori, C., Farina, B., … & Onofri, A. (2018). Utilità del neurofeedback in associazione alla terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dello spettro impulsivo-compulsivo: dati preliminari di uno studio sperimentale naturalistico. QUADERNI DI PSICOTERAPIA COGNITIVA.

Skodol A.E., Oldham J.M. (1996). Phenomenology, differential diagnosis, and comorbidity of the impulsive-compulsive spectrum of disorder. In: Oldham J.M., Hollander E., Skodol A.E. (eds.), Impulsivity and compulsivity. Arlington, VA: American Psychiatric Association, pp. 1-36.

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Non posso, non devo, non voglio…

 

Il rapporto tra scopi e anti-scopi nella genesi della sofferenza psicologica

Nel corso della terapia il Sig. S. si esprime sempre con frasi che specificano bene come dovrebbe e non dovrebbe essere: “Non voglio essere dipendente da nessuno, non voglio essere debole, non voglio essere un fallito, non voglio somigliare ai miei genitori, voglio essere amato e sostenuto”. Per evitare il realizzarsi di questi scenari temuti S. riferisce di impegnarsi molto sul lavoro, di sacrificarsi e controllare i suoi pensieri e comportamenti. Tuttavia tali strategie sembrano causargli disagio, ansia generalizzata e preoccupazioni ipocondriache sino a farlo sentire proprio come suo padre che descrive come spento, solo e fallito.
Proprio come il nostro Sig. S. ogni altro individuo rappresenta se stesso e il mondo che lo circonda secondo strutture di significato definite “credenze” e orienta naturalmente i propri processi cognitivi e le proprie condotte sulla base di stati desiderati, definiti invece “scopi”, la cui soddisfazione potrà avvenire attraverso una modificazione della realtà, al fine di renderla il più possibile aderente a ciò che ci si è idealmente rappresentati oppure con la prevenzione di ciò che si teme maggiormente. In altre parole, ciò che perseguiamo, per cui ci battiamo, e che governa e dirige l’attenzione, la memoria e più in generale il pensiero, oltre che i comportamenti, ricopre un ruolo fondamentale nel funzionamento psicologico di ciascuno. Negli anni, la teorizzazione di tale concetto (scopo) è stata centrale e dibattuta dalle diverse discipline e correnti psicologiche.
Alcuni sottolineano la presenza di scopi evolutivi e innati, altri parlano di scopi esistenziali; il cognitivismo approfondisce il rapporto fra scopi-credenze e sofferenza psicologica, evidenziando la differenza fra scopi strumentali e scopi terminali.
Il cognitivismo, in ogni caso, definisce il ruolo degli scopi come un elemento fondamentale dell’organizzazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’individuo. Infatti, proprio in relazione a gli scopi, il cognitivismo spiega come la sofferenza psicologica sia supportata dalla presenza di convinzioni automatiche negative, rigide e assolutistiche, su se stessi, su gli altri e sul mondo, che possono minacciare o compromettere tali scopi in modo più o meno definitivo.
L’esperienza quotidiana di ciascuno ci suggerisce, e la letteratura scientifica lo conferma, che uno scopo compromesso o minacciato sarà fonte di sofferenza psichica la cui intensità solitamente è direttamente proporzionale sia a quanto lo scopo è nucleare nel funzionamento della persona, sia a quanto questo scopo venga investito, o ancor più iper-investito, in termini di valore conferito e dispendio di energie impiegate per perseguirlo. Francesco Mancini e Claudia Perdighe in un interessante articolo forniscono una chiara spiegazione di cosa si intenda per compromissione e minaccia di uno scopo. Nel dettaglio gli autori intendono per compromissione “una rappresentazione della realtà diversa dallo stato desiderato, ove lo stato desiderato è la rappresentazione del mondo verso cui tendere” e per minaccia “una rappresentazione di un evento al quale si attribuisce o del quale si riconosce il potere di compromettere uno o più scopi personali”.
Talvolta, però, si formulano desideri, aspirazioni (e con questi altresì credenze e regole) anche al negativo: “Non posso/voglio essere debole, non voglio essere dipendente e bisognoso, non voglio essere come mia madre, non devo arrabbiarmi. Un simile stato mentale, in cui ci diciamo quello che mai vorremmo essere (anti-scopo), sembra giocare un ruolo cruciale nella genesi e nell’accrescimento del dolore emotivo”.
Da questa prospettiva è evidente quale rilevante ruolo abbiano le credenze che si intrattengono in merito a scopi e anti-scopi. Dunque, cosa avviene quando ci prefiguriamo nella mente gli scopi al contrario, ovvero formulando le aspirazioni al negativo e anticipando scenari temuti?
Cosa significa per l’individuo “non posso essere debole, non devo essere bisognoso o non posso essere arrabbiato”? Quali emozioni vengono esperite e come sono gestite? Dunque, inseguire o fuggire?
Talvolta potrebbe essere proprio il focus sullo scopo VS anti-scopo a determinare differenze individuali che a loro volta generano uno stato mentale orientato al perseguimento o alla fuga.
 Roberto Lorenzini spiega, infatti, come al mondo del perseguimento si affianchi quello della fuga motivata dall’anticipazione dello scenario temuto e dalla prevenzione del rischio che esso si verifichi. In questo caso non saremmo, dunque, guidati dalla spinta verso il raggiungimento del risultato bensì dalla prevenzione o dall’evitamento del fallimento. Seguendo questa concettualizzazione, si potrebbero pertanto delineare due configurazioni dissimili rispetto all’attenzione rivolta verso gli scopi o gli anti-scopi e le loro diverse declinazioni nei diversi profili di sofferenza e psicopatologia.
Per fare un esempio, quanto è saliente nel Sig. S. la relazione tra lo scopo dell’essere amabile/accudito/riconosciuto e lo scopo di essere debole vs forte?
Nell’ottica di questa concettualizzazione, infatti, ci si imbatte spesso in progetti di vita, il più delle volte inconsapevoli, in cui non ci si impegna tanto a perseguire ciò che effettivamente renderebbe più serena l’esistenza, quindi verso scopi raggiungibili, bensì si impiegano consistenti dosi di energie per evitare i loro antagonisti – gli antiscopi, sacrificando cosi preziose opportunità pur di aggirare scenari catastrofici altamente temuti.
Si innesca, dunque, uno stato mentale orientato alla prevenzione e finalizzato a sorvegliare l’investimento su scopi ed anti-scopi in modo trasversale: ad esempio nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, a prescindere dal posizionamento di scopi e antiscopi (essere moralmente integro/degno, essere non colpevole/non sporco) il funzionamento del disturbo sembra risiedere in un atteggiamento iper-prudenziale secondo il quale non è contemplata, in nessuna misura, la possibilità di esporsi anche ad un piccola quota di rischio.
In virtù di quanto esposto, identificare i propri scopi e anti-scopi permette da un lato di fare luce sulla loro origine e sul loro significato, dall’altro di individuare le credenze che vi si legano, le emozioni esperite e i comportamenti più o meno problematici messi in atto per promuoverli o tutelarli. Nel caso del Sig. S. potrebbe essere proprio il conflitto fra le due posizioni (atteggiamento promozionale/atteggiamento di prevenzione) a generare sofferenza. Ad esempio il suo iniziale approccio di tipo promozionale “essere forte, affermato, autonomo, allegro, soddisfatto” cede difronte ad un evento di vita spiacevole (condizione medica transitoria) portandolo a sviluppare un atteggiamento di tipo preventivo (di inibizione ed evitamento) in risposta alla minaccia di scopi per lui nucleari di appartenenza, autonomia ed amabilità, compromessi dalla condizione di malattia (debole/malato=non amabile e solo).
Pertanto, nel corso del trattamento, è stato utile riflettere sui costi dei suoi comportamenti di controllo e sul senso del suo iper investimento portandolo così, nel tempo, a ristrutturare le credenze “non voglio essere debole” sino ad accettare il rischio di poter esperire sofferenza e quindi debolezza e vulnerabilità senza per questo rinunciare alla piacevolezza dell’esistenza.
Concludendo, tracciare una mappatura di scopi e anti–scopi si mostra funzionale a svelare velocemente i temi centrali della persona, il loro grado di soddisfazione/compromissione e le determinanti cognitive e comportamentali correlate; il tutto con l’intento di conoscere la provenienza e il funzionamento della sofferenza psicologica al fine ultimo di sviluppare un percorso di psicoterapia capace di promuovere un processo di ristrutturazione e cambiamento.

Per approfondimenti

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre?
il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Un insegnamento di Roberto Lorenzini

di Mauro Giacomantonio

Un anno fa ci lasciava un pilastro del cognitivismo clinico italiano

È trascorso da pochi giorni l’anniversario della morte di Roberto Lorenzini. Scrivo per ricordarlo e col cruccio che, col passare del tempo, molti giovani psicoterapeuti in formazione non possano conoscere i suoi insegnamenti, godere della sua esperienza e della sua simpatia. Scrivo quindi per fissare un insegnamento che lui mi ha dato, nella speranza di invogliare altri a fare lo stesso.

Negli anni di formazione, ho spesso condiviso con Roberto e le colleghe di training riflessioni sui pazienti che mi sembravano sensate, persino intelligenti! Lui era sempre incoraggiante anche se penso mi ritenesse, giustamente, un rompiscatole. Solo una volta gli si illuminarono gli occhi e sorrise soddisfatto durante un mio intervento e io lo notai con stupore. Avevo detto che con un certo paziente difficile stavo cercando di dare “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Ma come? Dopo tutte le complesse formulazioni del caso e tutte le riflessioni sulle strategie di intervento, il complimento più sincero nasceva da una frase così mediocre?

Ho cercato a più riprese di capire bene cosa avesse voluto insegnarmi quel giorno. Oggi, parlando di lui con una collega, penso di averlo focalizzato meglio. Probabilmente si potrebbe riassumere così: l’impotenza senza resa. Abbandonare l’illusione di capire tutto, di sapere ogni cosa, di avere una risposta per ogni criticità, una tecnica per ogni sintomo, senza però abbandonare il paziente. Senza arrendersi e perdere interesse se le cose non tornano come ce le siamo raccontate. In questa prospettiva, “dare un colpo al cerchio e uno alla botte” significava darsi da fare, fare dei tentativi, provare a capire di cosa c’è bisogno e cosa va buttato via. Significava anche togliersi il tanto agognato mantello da Super Terapeuta senza sentirsi troppo incapaci. Questo si lega bene con altri suoi insegnamenti come, ad esempio, il fatto che la terapia sia un incontro unico di due persone e che quindi non è tutto nelle nostre mani. Oppure che la formulazione del caso si chiude solo all’ultima seduta.

Anche l’insegnamento dell’impotenza senza resa era, indirettamente, un incoraggiamento a stare meno al centro della terapia e ad ascoltare con interesse e disponibilità la storia dell’altro.

Sono passati più o meno cinque anni dal quel pomeriggio del colpo al cerchio e alla botte e ancora ci ripenso e ancora mi aiuta.

 

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Sentirsi al sicuro

di Sabrina Bisogno

Cosa accade quando si ha la percezione di un pericolo imminente

Durante la manifestazione di apertura dell’ultimo congresso della Società Italiana di Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva, uno dei chair ha affermato: “In condizioni di sicurezza, ci assomigliamo un po’ tutti”.

Lo psicologo e psicanalista Peter Fonagy, professore alla University College di Londra e ospite del congresso, ha ricordato il vissuto di profonda alienazione sperimentato quando, profugo ungherese, si è ritrovato in Inghilterra e, per far fronte al proprio malessere, ha intrapreso un percorso di cura. Ha quindi sottolineato quanto sia potenzialmente danneggiabile lo “strato epidermico” che ci protegge dalla malattia mentale e come sentirsi al sicuro sia un fattore protettivo per la psiche.

Ma cosa vuol dire sentirsi in pericolo?

Possiamo affermare che ciascun essere umano ha un personale impianto di sorveglianza, ossia il sistema nervoso autonomo, che è pronto a rilevare segnali di pericolo grazie alla “neurocezione”: ciò che sente istintivamente il corpo.

Quando viene rilevato un pericolo, l’attivazione del sistema nervoso simpatico permette strategie di difesa, di attacco o fuga. E quando non si è in grado né di lottare né di fuggire, il tratto dorso vagale della branca parasimpatica permette la sopravvivenza attraverso l’immobilizzazione.

Questo è ciò che accade a ciascun essere umano di fronte ad un pericolo reale e oggettivo, come ad esempio la comparsa improvvisa di un animale minaccioso.

Tuttavia è interessante tener presente che questo accade anche di fronte a pericoli meno oggettivi ma ugualmente percepiti come significativi e imminenti, come ad esempio la minaccia di un rifiuto, di un abbandono o di una umiliazione: quando dunque il pericolo non è fuori ma è legato ai contenuti mentali e a come ci si sente in specifiche situazioni.

Quando invece ci si percepisce in una condizione di sicurezza, queste strategie di auto-protezione sono depotenziate, silenti, e a essere attivo è il tratto ventro vagale della branca parasimpatica. Quando ci si sente al sicuro, quindi, il sistema nervoso autonomo non è impegnato nel reclutare energie per difendersi e ci si sente calmi.

In una condizione di pericolo percepito, tutte le energie sono investite nella difesa e non c’è spazio per l’apprendimento sociale. Manca quella sufficiente sensazione di fiducia che permette la sperimentazione, il cambiamento, la costruzione di relazioni, l’intimità.

Ricordare quindi che il cervello umano funziona nello stesso identico modo sia che si tratti di un pericolo oggettivo e facilmente riconoscibile (animale minaccioso) sia che si tratti di un pericolo soggettivo (paura di restare soli, di essere rifiutati, etc.) aiuta a comprendere come mai si sperimenti la sensazione di non essere “lucidi” o in grado di gestire le  proprie reazioni di fronte ad alcuni stimoli specifici.

Nel momento in cui viene percepito il pericolo, anche se non a un livello di piena consapevolezza, il sistema nervoso autonomo disattiva le funzioni superiori non necessarie e attiva quelle primitive volte alla sopravvivenza. Se si avverte ad esempio il rischio di essere abbandonati, si ha quindi la sensazione di poter non sopravvivere e si agisce al fine di salvarsi.

E allora ci si ritrova, spesso senza neppure sentirsi pienamente al comando, ad attaccare o fuggire o bloccarsi.

Questi presupposti teorici hanno un significativo impatto sui modelli operativi di coloro che a più livelli si occupano di salute mentale, perché chiariscono quanto possa essere essenziale implementare lo stato di sicurezza e aiutano a comprendere come mai l’essere umano si mostri resistente al cambiamento. I comportamenti umani, infatti, se pur disfunzionali, rappresentano spesso l’istintivo tentativo di sopravvivenza e quando si è impegnati a sopravvivere emotivamente, non c’è spazio per nessuna riflessione o azione di buon senso.

Una maggiore consapevolezza di sé e dei propri personali segnali di minaccia aiuta a modulare e padroneggiare meglio i comportamenti.

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Think Good, Feel Good

di Claudia Perdighe

I colleghi che hanno rispettivamente tradotto e curato la versione italiana di “Think Good, Feel Good” Allenati a pensare diversamente per sentirti meglio, Elena Cirimbilla e Giuseppe Romano, mi hanno chiesto di leggere questo libro per una eventuale recensione. Lo ho preso in mano ed è stato un amore a prima vista. Proverò quindi a spiegare per quali buone ragioni merita di essere letto da qualunque terapeuta, anche se come me non si occupa di psicoterapia in età evolutiva.

La prima cosa che mi ha colpito è il fatto che nel primo capitolo c’è una presentazione della psicoterapia cognitiva essenziale, semplice nel linguaggio e chiarissima nei concetti che spiega in modo essenziale cosa è la psicoterapia cognitiva e su quali principi scientifici si basa. Il rasoio di Occam usato bene. In particolare mi ha impressionato l’abilità dell’autore di spiegare in poche parole sia le specificità delle cosiddette tre onde della CBT (il comportamentismo, il cognitivismo e le terapie terza onda) e sia il quanto siano integrabili senza forzature, non solo su un piano tecnico (nell’uso di tecniche efficaci, anche se sviluppate in “un’altra onda”), ma anche su un piano concettuale; ad esempio, l’autore evidenzia la non contraddizione nell’usare le procedure di terza onda che “non hanno lo scopo esplicito di modificare le cognizioni”, e basarsi su una teoria che prevede che il cambiamento dei sintomi segua il cambiamento della cognizione (il fatto che, per esempio, la mindfulness non agisca in modo esplicito sulla cognizione, non implica che non la modifichi e che il cambiamento avvenga a quel livello!).

Un secondo ottimo motivo per leggere questo libro è che, da non esperta del tema, ho avuto l’impressione che contenga una “cassetta degli attrezzi”, nei termini dell’autore, completa. Non ci sono protocolli per singoli disturbi, ma ci sono tutti gli strumenti di cambiamento utili nel curare i disturbi emotivi, nel costruire competenze e, in ultimo, migliorare complessivamente il funzionamento e il benessere del bambino. Le procedure tipiche della CBT sono presentate in capitoli,  in forma già adattata all’età evolutiva e spesso tradotte in schede di lavoro direttamente applicabili; per esempio, il debating prevede delle schede con le domande tipiche della discussione che si possono o compilare insieme o dare come strumento da usare da solo al paziente.

In ultimo, una cosa che mi ha colpito molto è l’idea del paziente e dei disturbi mentale che traspare, che definirei di grande fiducia nel paziente e nelle sue risorse: i sintomi e le difficoltà del paziente (e dei genitori) sembrano concettualizzate nella mente del terapeuta sempre come modalità disfunzionali si, ma anche sempre orientate a soddisfare bisogni, perseguire scopi e desideri del tutto legittimi e condivisibili.

Stallard P. (2021), Think Good, Feel Good. Allenati a pensare diversamente per sentirti meglio. (Edizione italiana tradotta da E. Cirimbilla e curata da G. Romano), Roma, Giovanni Fioriti Editore

Novità sulla ristrutturazione cognitiva

di Andrea Paulis

Cosa avviene a livello cerebrale durante il questioning socratico?

Come è ben noto, le credenze negative su di sé, hanno un ruolo centrale in molti disturbi psicopatologici e la loro flessibilità è ritenuta un fattore predittivo degli outcome nella Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT). Tuttavia sono ancora poco noti i meccanismi neurobiologici e le aree cerebrali implicate nella ristrutturazione cognitiva di questo tipo di credenze.

Grazie a diverse ricerche in ambito psicologico, condotte con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale (fMRI), si è notato che il Default Mode Network (DMN) – un circuito di aree cerebrali, composto principalmente da: corteccia cingolata posteriore, PCC; corteccia prefrontale mediale, mPFC; lobulo parietale inferiore, IPL – supporta una serie di processi mentali come l’autovalutazione negativa, il pensiero autoreferenziale, il monitoraggio dell’ambiente esterno, del corpo e dello stato emotivo.

Risulta quindi interessante stabilirne l’implicazione nel processo di ristrutturazione cognitiva; a tal proposito, il lavoro dello studioso statunitense Matthew L. Dixon ed altri colleghi, condotto su pazienti con disturbo da ansia sociale, ha permesso di rilevare una significativa attivazione del DMN quando i soggetti attuavano una reinterpretazione delle loro convinzioni negative sul sé anziché praticarne l’accettazione.

La letteratura più recente suggerisce che la rivalutazione delle convinzioni su di sé e l’apprendimento di nuove rappresentazioni (fattori fondamentali nella ristrutturazione cognitiva) possano dipendere dall’attività coordinata delle già citate reti corticali e del talamo dorsomediale (MD).

Al fine di chiarire il ruolo del MD, nel recente studio di Trevor Steward e colleghi, sono stati reclutati 42 soggetti che si sono sottoposti a risonanza magnetica funzionale 7-Tesla ad altissima risoluzione (UHF-7-T-fMRI), durante un questioning socratico mirato a ristrutturare cognitivamente le convinzioni negative su di sé.

I risultati mostrano come la ristrutturazione cognitiva sia correlata non solo all’attivazione corticale ma anche subcorticale di specifiche aree. Nel dettaglio, si nota come il questioning abbia stimolato l’attivazione del circuito fronto-striato-talamico, in particolar modo l’area subcorticale del MD, e della mPFC. Secondo gli studiosi sarebbe proprio il MD a svolgere un ruolo chiave, stimolando l’attività in ulteriori regioni corticali durante i processi di ordine superiore e trasmettendo informazioni sulle rappresentazioni rilevanti per il contesto alle regioni subcorticali.

Infine, è stata osservata una relazione tra la connettività mPFC-MD e le differenze individuali nella tendenza ad attuare ripetitivi processi di pensiero negativo: sembrerebbe che gli individui che presentano una eccessiva attivazione di questo “percorso neurale”, durante il questioning, siano meno disposti a riformulare cognitivamente le proprie convinzioni negative disfunzionali mostrandosi maggiormente inclini a elicitare pensieri negativi ripetitivi e rimuginio. Ciò suggerisce che particolari aree del MD possano rappresentare un eventuale target di stimolazione nel trattamento di diversi disturbi psicopatologici mediante l’uso di tecniche di neuromodulazione.

Tutte queste evidenze, pur lasciando ancora molti interrogativi, portano a ipotizzare che sono diverse le aree coinvolte in un compito di rivalutazione cognitiva e che il MD ne sincronizzi l’attività, consentendo così la produzione di autorappresentazioni complesse fondamentali affinché avvenga una ristrutturazione cognitiva delle credenze negative sul sé.

Per approfondimenti

Cash, R. F., Weigand, A., Zalesky, A., Siddiqi, S. H., Downar, J., Fitzgerald, P. B., & Fox, M. D. (2021). Using brain imaging to improve spatial targeting of transcranial magnetic stimulation for depression. Biological Psychiatry, 90(10), 689-700.

Davey, C. G., & Harrison, B. J. (2018). The brain’s center of gravity: how the default mode network helps us to understand the self. World Psychiatry, 17(3), 278.

Dixon, M. L., Moodie, C. A., Goldin, P. R., Farb, N., Heimberg, R. G., & Gross, J. J. (2020). Emotion regulation in social anxiety disorder: reappraisal and acceptance of negative self-beliefs. Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 5(1), 119-129.

Pergola, G., Danet, L., Pitel, A. L., Carlesimo, G. A., Segobin, S., Pariente, J., … & Barbeau, E. J. (2018). The regulatory role of the human mediodorsal thalamus. Trends in cognitive sciences, 22(11), 1011-1025.

Steward, T., Kung, P. H., Davey, C. G., Moffat, B. A., Glarin, R. K., Jamieson, A. J., … & Harrison, B. J. (2022). A thalamo-centric neural signature for restructuring negative self-beliefs. Molecular Psychiatry, 1-7.