Il Disturbo da Accumulo: diagnosi e psicoterapia cognitivo comportamentale

di Giordana Ercolani

Venerdì 25 settembre, presso la sede di Grosseto della SPC Scuola di Psicoterapia Cognitiva, si è svolto un simposio dal titolo “Il Disturbo da Accumulo: diagnosi e psicoterapia cognitivo comportamentale”. Il disturbo da accumulo fino al 2013, anno di pubblicazione del DSM-5, era inserito tra i criteri diagnostici del disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (DOCP) e, nei casi più gravi, poteva essere inquadrato come sottotipo del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) in Asse I.

L’evento si è aperto con un’introduzione a cura del Dr. Andrea Gragnani, responsabile della sede toscana della Scuola di Psicoterapia Cognitiva, e didatta di alcuni relatori, nonché autori, della prima pubblicazione italiana sul Disturbo di Accumulo (DA) da quando è stato inserito nel DSM-5 come disturbo mentale con una sua propria specificità disturbo-da-accumulo. Leggi tutto “Il Disturbo da Accumulo: diagnosi e psicoterapia cognitivo comportamentale”

Nei neonati, una scarsa preferenza per il viso predice lo sviluppo di tratti anti-sociali a due anni

di Barbara Basile

Rachael Bedford e collaboratori (2015) hanno indagato la capacità di predire lo sviluppo di uno stile interpersonale callous-unemotional (CU, letteralmente insensibile-non emotivo) in bambini di due anni e mezzo, partendo dalla loro preferenza (i.e., maggiore attenzione) tra volti umani e oggetti inanimati, in neonati di poche settimane.

Come indicato da Frick (2009), le persone con tratti CU sono caratterizzati da una scarsa propensione a provare senso di colpa o rimorso, da una riduzione delle preoccupazioni per le emozioni altrui, da una espressione superficiale delle emozioni e da una diminuzione delle preoccupazioni relative alle proprie performance. Le caratteristiche cognitive che caratterizzano chi ha tratti CU includono una maggiore resistenza al cambiamento, una scarsa sensibilità ai segnali di punizione (Frick, Kimonis et al., 2003) e la sottostima della probabilità di essere puniti (Pardini et al., 2003). Sul piano comportamentale, questi individui ricorrono frequentemente all’aggressività premeditata e strumentale, finalizzata all’acquisizione di guadagni personali ed alla dominanza sugli altri (Frick, Cornell, et al., 2003). Leggi tutto “Nei neonati, una scarsa preferenza per il viso predice lo sviluppo di tratti anti-sociali a due anni”

Overgeneral memory e disturbo depressivo: perché?

di Rosina Misasi, Università Guglielmo Marconi, Roma[1]

Il fenomeno overgeneral memory (OGM), caratteristica costante dei pazienti con diagnosi di depressione maggiore (Williams 1996), è un ipergeneralizzazione dei ricordi autobiografici che riflette la difficoltà a recuperare una memoria specifica. Ma perché ciò accade nei pazienti con MDD?

La conoscenza di base della memoria autobiografica (autobiographical memory knowledge base) è composta da conoscenze relative al Sé organizzate in un magazzino di memorie autobiografiche secondo tre livelli di specificità (Conway e Pleydell-Pearce 2000). Leggi tutto “Overgeneral memory e disturbo depressivo: perché?”

Sport e psicologia una diade “vincente”

di Manuela Ansaldo

Sabato 13 e Domenica 14 Giugno si è svolto, presso la sede delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC e SPC di Roma, il Workshop in “Tecniche di preparazione mentale nella Psicologia dello Sport”.

Presentare un intervento nell’ambito della Psicologia dello Sport, settore sino ad ora non trattato all’interno delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, è stata una scelta fiduciosa ed allo stesso tempo molto audace.psicologia-dello-sport-e1428402966937

La richiesta è stata inoltrata da una studentessa APC all’ultimo anno di formazione (la sottoscritta!) ed è stata accolta dall’area dirigente con prudente entusiasmo e grande supporto logistico. L’accoglienza da parte di un pubblico curioso (coloro che lavorano prettamente in ambito psicopatologico ed hanno bisogno di una “ventata di aria nuova!”) ed interessato (coloro che già lavorano in ambito sportivo, ma hanno bisogno di chiarimenti metodologici e approfondimenti) ha reso possibile il successo dell’iniziativa, non solo in termini di numeri (15 partecipanti provenienti da tutta Italia, pubblico eterogeneo, ma in gran parte costituito da psicoterapeuti) ma anche di sentito entusiasmo, partecipazione e condivisione di esperienze e interessi.

La docente, Dott.ssa Marina Gerin Birsa, è Consigliere nazionale della SIPsiS – Società Italiana Psicologia dello Sport (2013-2017), Presidente Regionale per il Friuli Venezia Giulia della S.P.O.P.S.A.M. (Società Professionale Operatori di Psicologia dello Sport e delle Attività Motorie) (2009 – 2017), docente del Master Online di Psicologia dello Sport del gruppo “Psymedisport” riconosciuto dalla SIPsiS. Opera nel settore dal 1998 ed ha seguito circa 500 atleti di varie discipline sportive, tra cui basket, nuoto, tuffi, golf, tennis, equitazione, ciclismo, calcio, arrampicata sportiva, kick boxing, scherma, calcio femminile, motocross, nuoto sincronizzato.

Un’ora di docenza è stata svolta dalla sottoscritta per presentare un progetto di applicazione dell’attività fisica a scopo terapeutico in ambito psicopatologico.

La Dott.ssa Gerin Birsa ha spiegato in cosa consiste l’intervento prototipico dello Psicologo dello Sport, sia con le squadre, che con i singoli atleti, arricchendolo di esperienze, è proprio il caso di dire, vissute “sul campo”, o meglio, sui vari campi, a seconda dello sport specifico. Il “core” del protocollo è costituito dal “mental training”, un insieme di strategie che intende aiutare gli atleti ad acquisire ed a mettere in pratica le abilità psico-fisiologiche utili al miglioramento delle prestazioni in allenamento e in gara. L’intervento non riguarda, per lo più, solo gli atleti, ma un’equipe di lavoro che intende valorizzare il talento sportivo.

Il modello d’intervento si avvale di 10-15 incontri, suddivisi nell’arco della stagione sportiva, con un programma che utilizza tecniche specifiche, quali rilassamento, visualizzazione, gestione dell’ansia e dello stress, goal settings, dialogo interno, nonché, anche attraverso l’uso di testistica (QuAM per le abilità mentali, TAIS per l’attenzione, CBA Sport per la valutazione della personalità, POMS per l’umore, “Leadership Scale for Sport” per valutare la leadership dell’allenatore, Modello IZOF per costruire il Profilo Emozionale, Sociogramma Sportivo per la squadra) ed apparecchiature (Biofeedback) specifiche ad indagare aree psicologiche più dettagliate, quale gli stili attentivi, la motivazione, l’autostima, la comunicazione, i fattori di distrazione. L’analisi delle caratteristiche fisiche, tecniche ed emotive, che accompagnano la prestazione sportiva, permette di individuare le aree di miglioramento e gli obiettivi raggiungibili a breve, medio e lungo termine.

La peculiarità dell’intervento dello psicologo in ambito sportivo, emersa in maniera estremamente saliente durante le due giornate, è che esso ha il suo razionale nella prestazione dell’atleta. Il lavoro è finalizzato non ad indagare l’eziologia di dinamiche emotive e cognitive (lavoro che svolgerebbe lo psicoterapeuta), ma a farle venire alla luce e riconoscerle, al fine ultimo di porle a vantaggio della prestazione dell’atleta. Questo aspetto è fondamentale per porsi nella prospettiva di un intervento costruttivo nella Psicologia dello Sport. Non è necessario essere uno psicoterapeuta; se esserlo può costituire da un lato un valore aggiunto, allo stesso tempo questo non deve influenzare l’intervento nell’andare a fondo a dinamiche che non sono di pertinenza dello Psicologo dello Sport.

La giornata di domenica si è conclusa con un mio intervento sul progetto “Teraplando: facciamo terapia pedalando” da me ideato, organizzato ed in essere grazie alla collaborazione con l’Associazione sportiva MAC (MenteAnimaCorpo) Italia, presidente Carlo Demofonti. La mia formazione nell’ambito della psicologia, psiconeuroimmunologia e delle neuroscienze, nonché come sportiva nel settore del ciclismo e dell’indoor cycling, ha reso possibile il connubio delle conoscenze ed esperienze, in un progetto che sfrutta i benefici dell’attività fisica sulla salute psicofisica. Nel concreto, “Teraplando” porta a pedalare su biciclette a volano fisso, all’interno di un centro sportivo che offre la struttura gratuitamente, coloro che accedono al servizio di salute mentale (nello specifico, la collaborazione è ora in essere con il DSM di Cinecittà). Il razionale scientifico del progetto raccoglie un’ampia bibliografia che spiega i benefici dell’attività fisica sulla salute mentale: sono stati presentati i vantaggi dal punto di vista neuromorfologico, neurofunzionale, neurocognitivo, sino alle modifiche della biochimica cerebrale. Per individui con diagnosi di psicopatologia, tali modifiche indotte naturalmente da un esercizio aerobico, quale, appunto l'”indoor cycling”, determinano un miglioramento del tono dell’umore. A giovare di questi cambiamenti endogeni sono, oltre gli aspetti prettamente fisici e corporei, gli aspetti psicologici (miglioramento dell’autostima e senso di autoefficacia) e sociali (essendo un’attività di gruppo, stimola una forte condivisione e senso di appartenenza).

A conclusione del Workshop, lo scambio di impressioni, curiosità ed esperienze hanno esaltato l’importanza di questi momenti di confronto e crescita, in un settore della Psicologia che può offrire tanto, ma che ha ancora bisogno di essere coltivato, esplorato e condiviso.

Concludo questo scritto riepilogativo con una frase tratta da “La repubblica – L’educazione dei cittadini” di Platone, IV Sec A.C., che racchiude in poche, ma rilevanti, parole ciò a cui dovremmo tendere quando parliamo di salute, mentale e fisica, ovvero di benessere psicofisico:

“Per far sì che l’uomo avesse successo nella vita, Dio lo fornì di due risorse, l’educazione e l’attività fisica. Non separatamente, l’una per l’anima e l’altra per il corpo, ma per entrambe insieme. Con queste due risorse, l’uomo può ambire alla perfezione”

L'intervento sul trauma secondo Martin Bohus: accorgimenti e indicazioni di metodo

di Chiara Lignola e Niccolò Varrucciu

Venerdì 12 e sabato 13 giugno presso l’Auditorium Via Rieti si è tenuto il workshop “DBT-PTSD: trattamento degli esiti psicopatologici degli abusi sessuali infantili” organizzato dalla SITCC Lazio e dalla Società Italiana Dialectical Behavior Therapy. Il seminario (per una sintesi dell’evento, a cura di Barbara Basile, è possibile collegarsi a questa pagina) è stato condotto dal Prof. Martin Bohus, professore ordinario dell’Università di Heidelberg e Direttore della Clinic for Psychosomatic Medicine and Psychotherapy di Mannheim, Board Member della German Association of Psychiatry (DGPPN), vice-Presidente of the European Society for the Studies of Personality Disorders (ESSPD) e presidente of the German Association for DBT.

Lo stile puntuale e coinvolgente del prof. Bohus ha tenuto alta l’attenzione dell’uditorio, evitando di trasformare il workshop nella “solita” lezione teorica sui principi della DBT che, purtroppo come a volte accade, lascia poco spazio all’illustrazione del trattamento, così utile a noi clinici. Le preziose nozioni teoriche si sono infatti intervallate con esercizi pratici di compassion, mindfulness, defusione, esempi clinici e interventi che, facendo sorridere i presenti, hanno permesso una migliore comprensione delle dinamiche della psicopatologia ed evidenziato come spesso i terapeuti abbiano riluttanza a parlare degli episodi traumatici riguardanti abusi sessuali, spezzettando il racconto in più incontri e trattando i pazienti borderline come oggetti particolarmente fragili… un po’ come se un urologo, citando Bohus, ci proponesse vari incontri nei quali nel primo si tolgono i pantaloni, nel secondo l’intimo…

Il rischio è, dunque, anche quello di alimentare la paura del paziente che il terapeuta non sia in grado di tollerare i dettagli di quanto gli è successo “potete parlare della vostra vita con la vostra fidanzata o dal barbiere ma purtroppo non ci sono dati che dimostrano che raccontare la propria vita aiuti a gestire la propria regolazione emotiva”.

“Trauma first!” Ancora prima di insegnare al paziente social skills per gestire la propria regolazione emotiva, Bohus propone di lavorare sul trauma partendo dalla conoscenza dei meccanismi di fuga emotivi, cognitivi e comportamentali messi in atto dal paziente prima.

I pazienti vogliono cancellare il trauma e non accettarlo, la terapia è invece rivolta a valutare il trauma come parte della propria vita: ricordare il trauma senza perdere il contatto con la realtà e considerarlo come appartenente al passato. “Sei sopravvissuto a quel periodo e sopravvivrai ai pensieri e ai ricordi di quel periodo.” L’intervento dev’essere così preciso che il prof. Bohus parla, utilizzando una similitudine, di “chirurgia psicologica”.

Nell’analisi delle fasi del trauma, il Prof. Bohus effettua una comparazione con il lutto. In questo processo il terapeuta assume il ruolo di quegli amici e parenti che si prendono cura di chi è in lutto, cercando di fornire tutto il supporto necessario rispettando i confini della persona al fine di non risultare invadente e limitare così l’efficacia del proprio intervento “un po’ come quando in alcune culture il vicinato prepara i pasti per la famiglia colpita dal lutto lasciandoli poi fuori dalla porta, senza entrare in casa”.

Una delle parti fondamentali di questo trattamento consiste nel gestire adeguatamente gli stati dissociativi del paziente al fine di permettere una corretta e consapevole rielaborazione della memoria dell’evento traumatico. Per questo sono state indicate semplici strategie utili al riconoscimento e alla gestione degli stati dissociativi.

Per rendere ulteriormente comprensibile la fase di esposizione al trauma è stato proiettato un video che ben ha mostrato i ruoli di terapeuta e paziente e l’interazione che avviene durante la seduta: il paziente viene esposto alla rievocazione del trauma stando in equilibrio su una pedana circolare sulla quale deve cercare di rimanere sorretto dal sostegno del terapeuta, quando il paziente stesso lo desideri: essere nella condizione di dover mantenere l’equilibro impedisce la dissociazione. Il paziente allora inizia a raccontare l’evento traumatico e una volta che il paziente riesce a sperimentare l’emozione core il terapeuta effettua continui confronti fra la situazione passata, in cui effettivamente ha sperimentato il trauma, e quella attuale, nella quale c’è l’emozione ma in assenza di un trauma effettivo. Con il passare delle sessioni la realtà del paziente verrà ri-orientata correttamente, permettendogli di superare quel “terribile” evento. Questo lavoro continuerà per tutti i traumi riportati.

L’intervento del Prof. Bohus ha assunto una particolare rilevanza nell’assegnare alla psicoterapia un ruolo sempre più rilevante nella cura del paziente grave e incoraggiando giovani clinici e ricercatori nel proseguire in questo cammino tanto arduo quanto ricco di soddisfazioni.

Workshop sulla DBT per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e sintomi post-traumatici

di Barbara Basile

Il workshop organizzato dalla SITCC pochi giorni fa a Roma ha consentito al professore Martin Bohus di illustrarci il suo approccio dialettico-comportamentale (DBT) al trattamento dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD), vittime di abusi sessuali infantili. L’intervento del professore di Medicina Psicosomatica e Psicoterapia dell’università di Heidelberg (tra le altre, anche Dirigente della Clinic for Psychosomatic Medicine and Psychotherapy di Mannheim, vice-presidente della Società Europea per gli studi sui Disturbi di Personalità, Presidente dell’Associazione tedesca per la DBT e altre ancora!) ha illustrato in modo semplice ed efficace come intervenire con quei pazienti che hanno sviluppato un DBP, in seguito ad un trauma infantile a sfondo sessuale. Il modello integra diversi approcci di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) di terza generazione, tra i quali la DBT, l’Acceptance & Committment Therapy (ACT, Steve Hayes) e la Compassion Focused Therapy (Paul Gilbert), usati come facilitatori e motivatori, con una più classica esposizione al trauma, che avviene in una fase più tardiva del trattamento.

È noto che l’abuso sessuale infantile è fortemente correlato allo sviluppo di disturbi, tra i più frequenti sono quelli del sonno, il DBP, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i tentativi suicidari, aumentando di ben tre volte la probabilità di sviluppare una patologia psichiatrica in età adulta. Molto spesso, inoltre, i sintomi di queste patologie si associano l’uno con l’altro e contribuiscono ad una bassa autostima, allo sviluppo di disturbi di somatizzazione (i.e., obesità, disturbi metabolici o cardiaci) e predispone a gravi sintomi dissociativi.

In seguito ad esperienze abusanti, il senso di auto-protezione/sicurezza del bambino è fortemente minato, innescando emozioni di paura, dolore, disgusto e impotenza, che attivano comportamenti di evitamento o congelamento. Questi meccanismi hanno l’obiettivo di proteggere il bambino nel tentativo di difendersi dall’esperienza traumatica, essendo costretto a restare nel contesto familiare, spesso teatro dell’abuso. In seguito, il paziente sviluppa delle credenze come “nella mia famiglia questo è normale”, “devo aver fatto qualcosa di sbagliato” o “sono sbagliato, sporco e merito di soffrire” che attivano emozioni secondarie, come la colpa e la vergogna. Queste emozioni permettono al paziente di spiegarsi in qualche modo l’esperienza subita e a sopravvivere nell’ambiente sociale, in modo da evitare l’esclusione o il rifiuto da parte degli altri.

Il modello di Bohus, autore di oltre 200 pubblicazioni, alcune delle quali volte a dimostrare l’efficacia dell’intervento, individua nella necessità di sicurezza e nello scopo dell’affiliazione sociale, i bisogni e gli scopi fondamentali del paziente BPD. Nell’età adulta diversi eventi (i.e., un odore, un suono, un ricordo, una sensazione, etc.) possono attivare un’emozione primaria simile a quella esperita durante l’abuso che accende il network del trauma del paziente, attivando, a sua volta, comportamenti di evitamento o di fuga (Figura 1). Per evitare l’attivazione di questo network, e delle emozioni ad esso associate, il paziente impara a sviluppare delle strategie di coping maladattive (i.e., rituali di pulizia, gesti auto-lesivi, uso di sostante, negazione, rimuginio, etc.), che a lungo termine causano ulteriori sintomi disfunzionali.

Figura 1
Figura 1

Lo scopo del trattamento consiste nell’aiutare il paziente a bloccare l’evitamento e a connettersi, invece, con l’emozione primaria associata all’esperienza di abuso, ricollocandola nella realtà in cui il paziente opera, slegandola, quindi, dall’esperienza traumatica passata. È importante sottolineare che le emozioni primarie e le sensazioni esperite dal bambino possono essere anche piacevoli (i.e., sentirsi speciali, eccitamento sessuale, vicinanza) creando una associazione positiva con l’abuso e diventando, anch’esse, trigger dell’esperienza traumatica. L’obiettivo dell’intervento consiste nell’identificare le strategie di evitamento del paziente e nello scollegare le emozioni primarie (paura, disgusto, impotenza) da quelle secondarie (colpa e vergogna), in modo da aiutare il paziente ad elaborare ed accettare le emozioni associate al trauma.

Un aspetto fondamentale da trattare è quello della dissociazione. Lo scopo in terapia è impedire che il paziente si dissoci sia quando si attivano le emozioni primarie associate al trauma, che durante l’esposizione al ricordo traumatico, bilanciando in modo appropriato l’accettazione delle emozioni primarie associate al trauma e la consapevolezza e il contatto con la realtà attuale. La dissociazione può essere attenuata con diverse strategie, quali l’utilizzo di acqua gelida, la stimolazione del sistema vestibolare o il contatto orale con del peperoncino. Un altro aspetto importante è legato alla pratica di comportamenti pericolosi, auto-lesivi o suicidari. Questi vanno identificati (ad esempio usando la Severe Behavior Dyscontrol Interview) e limitati attraverso un contratto terapeutico scritto molto articolato e insegnando al paziente a regolare le emozioni particolarmente intense. Un altro aspetto che va regolarizzato riguarda le relazioni interpersonali in corso. È consigliato che i pazienti interrompano per un certo periodo le relazioni con persone che presentano tratti border (per evitare che queste possano innescare comportamenti disregolati), così come andrebbero sospesi i rapporti sessuali con i partner (anche questi potrebbero fungere da trigger dell’abuso).

Operativamente, la struttura del trattamento prevede le fasi di 1) motivazione e pianificazione (in cui vengono usate strategie dell’ACT, come l’identificazione di valori e la defusione), 2) la condivisione del razionale del trattamento e l’apprendimento di abilità relazionali e di regolazione emotiva, 3) l’esposizione al trauma ed, infine, 4) la ri-organizzazione di una vita più funzionale. All’interno del trattamento va anche considerata la psico-educazione e la gestione delle emozioni di colpa, vergogna e disgusto. In seguito all’intervento specifico su queste emozioni, il paziente viene esposto alle esperienze traumatiche (in seduta e tramite homework), favorendo una dissociazione delle emozioni primarie legate al trauma passato, dall’attivazione delle stesse nella vita presente.

Il modello DBT per pazienti con BPD associato a trauma sessuale infantile proposto da Bohus rappresenta una integrazione flessibile ed efficace che accomuna strategie della classica CBT e nuovi approcci psicoterapici. Gli studi di efficacia mostrano un drop-out molto basso e un netto miglioramento sintomatologico (i.e., riduzione dei gesti suicidari e auto-lesivi, gestione dei sintomi dissociativi, diminuzione dell’attivazione del network del trauma, etc.), anche in pazienti con un BPD molto grave.

Le luci della città: una pratica guida alla depressione per autodidatti…

a cura della Redazione

Pubblichiamo oggi la testimonianza di una giovane donna affetta da crisi depressive.

In questo articolo, pubblicato sul sito softrevolutionzine.org, una rivista online per ragazze, si offrono degli spunti per comprendere l’esperienza emotiva in atto e per identificare gli eventuali segnali che precedono, e spesso anticipano, un episodio depressivo.

“La mia terza crisi depressiva fu la prima ad essere diagnosticata. Avvenne in un pomeriggio di settembre, nello studio del dottor M.. Fuori c’era un sole che mi sembrava, come minimo, indiscreto. Prima di rivolgermi ad un professionista avevo fatto passare tempo, abbastanza da essere sicura di averne davvero, davvero bisogno. Quando mi ritrovai a piangere senza motivo apparente sulla metro A, seduta tra due estranei, capii che era la mia ultima occasione di provare a fare qualcosa prima di ricaderci. Il motivo per cui è così difficile parlare della malattia mentale è …” (continua a leggere)

Il disturbo di dismorfismo corporeo

di Giordana Ercolani

Da affezionata lettrice delle avventure o disavventure (questo, come risaputo, dipende dai B di ognuno) del Dott. Carlo Biagioli, è stato un piacere per me ritrovarlo proprio nell’introduzione del libro che mi apprestavo a leggere; sì, perché proprio come lui, e cioè da giovane specializzanda, mi stavo apprestando a fare il giro tra i “corridoi” di un disturbo, quello da Dismorfismo Corporeo, molto complesso che si sovrappone spesso ad altra psicopatologia e che ha articolate implicazioni cognitive e sensoriali che lo rendono allo stesso tempo difficile ed affascinante da trattare; ma grazie al prezioso, minuzioso e pragmatico contributo degli autori, A. Scarinci e R. Lorenzini, tali corridoi si faranno meno “lunghi e tenebrosi”.

COP_Disturbo-di-dismorfismo-corporeo_590-0827-9Da pochi giorni in libreria, il manuale “Disturbo di Dismorfismo Corporeo – Diagnosi, assessment e trattamento”, edito da Erickson, risponde puntualmente alle esigenze del terapeuta che desidera conoscere il disturbo e vuole impostare un trattamento CBT.

L’opera è organizzata in due sezioni. Nella prima vi è una maggiore attenzione agli aspetti teorici legati alla ricerca e alla letteratura scientifica più recente. Nello specifico si affronta il periodo dell’adolescenza, momento di grandi cambiamenti nella mente e nel corpo, cambiamenti rapidi, a volte precoci a volte tardivi, insopportabili, in base ai quali ci si valuta e si è valutati; nei casi peggiori tali aspetti diventano oggetto di scherno da parte degli altri, se non peggio di critica e di rifiuto, tutte implicazioni, queste, che possono costituire condizioni di sensibilità allo sviluppo ed al mantenimento del BDD (body dysmorphic disorder) e non solo.

Si prosegue poi, nei capitoli successivi, all’esame di tutte le informazioni sulla formulazione del caso: qual è la storia di vita del paziente? Quali eventi hanno contribuito a favorire il suo scompenso? Cosa ha contribuito, nel tempo, a mantenere il suo disturbo? Quali credenze intrattiene su se stesso, in particolare sul proprio corpo, e sugli altri? E soprattutto, quali sono gli scopi in gioco che sta perseguendo? In che modo li sente minacciati? E come il BDD si struttura difronte a tale minaccia?

Gli Autori, in seguito, evidenziano come i pazienti con Dismorfismo Corporeo hanno una bassa qualità di vita, caratterizzata in modo particolare dall’esistenza di relazioni sociali povere e rendono più chiari diversi aspetti fenomenologici del disturbo, che vanno dalla presenza nel quadro sintomatico di comportamenti caratterizzati da alta aggressività verso se stessi e verso gli altri, all’uso e all’abuso di alcol e di sostanze, alla realizzazione di interventi, più o meno invasivi, mirati alla modifica del proprio corpo fino ad arrivare ad alti tassi di ideazione suicidaria ed al suicidio vero e proprio. Riguardo alla diagnosi, infine, rimarcano le difficoltà che si incontrano per l’esistenza di diversi disturbi in comorbilità che, con modalità differenti, si sovrappongono, si fondono alcune volte, e si manifestano con caratteristiche comuni al DCA, al DOC, alla Fobia Sociale. Citando gli Autori, il disturbo è “situato al crocevia nosografico tra i disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, le ossessioni e il delirio”.

Tornando a me, che mi addentro in corridoi tenebrosi, conclusa la lettura della prima parte del volume, mi accorgo della luce assai preziosa che mi è stata fornita per esaminare con “occhio clinico” la patologia a tutto tondo. Adesso, la seconda parte mi orienterà nell’impostazione dell’intervento terapeutico, andando oltre la speculazione teorica.

Inizialmente gli Autori forniscono alcuni specifici strumenti per la valutazione, corredati anche delle indicazioni per lo scoring; quindi passano ad offrire al lettore una serie di strategie e tecniche terapeutiche, non manca un accenno alle nuove tecnologie in supporto alla pratica clinica e conducono per mano il lettore nel labirinto contorto dell’intervento sul disturbo. Ed è di notevole importanza e utilità che le indicazioni terapeutiche fornite, vengono corredate di suggerimenti pratici e di schede da utilizzare nel trattamento, permettendo così, anche al terapeuta più inesperto (e qui i riferimenti personali non sono affatto casuali), di sentirsi accompagnato in un territorio (il BDD) non ancora esplorato. In appendice al capitolo sul trattamento, preziose indicazioni qualora ci si trovi davanti un caso più grave, magari con convinzioni deliranti e scarso, o peggio assente, insight. Il testo si chiude con la descrizione di alcuni casi clinici, un indispensabile aiuto per comprendere ancora meglio ciò che è stato esposto, fino a quel punto, a livello teorico/pratico. Il riscontro nella realtà clinica e nel disagio esistenziale traspare dal racconto delle vite dei quattro pazienti.

Non mi resta che augurare buona lettura o, meglio, buona passeggiata a tutti nei corridoi del BDD, con l’auspicio che sempre di più clinici di ampia fama ed esperienza come gli Autori di questo manuale ci diano strumenti in grado di illuminare i “lunghi e tenebrosi corridoi” che giovani cognitivisti si apprestano a percorrere.

L'acquisto compulsivo

di Francesco Baccetti

Il disturbo da accumulo, nella prima descrizione come entità nosografica autonoma, viene descritto da Frost e Hartl (1996) come la tendenza ad acquisire una quantità eccessiva di oggetti e l’incapacità di liberarsene, con conseguente disordine che impedisce il consueto uso degli spazi della casa e lo svolgimento delle funzioni per le quali tali spazi sono adibiti e ne mettono in luce tre aspetti centrali dell’accumulo, che sono in qualche modo le tre facce del disturbo: la tendenza ad acquisire e accumulare un numero eccessivo di oggetti, il disordine derivante dalla difficoltà a organizzare spazi e oggetti, la difficoltà causata dall’accumulo e dalla difficoltà a separarsi dagli oggetti. disturbo-da-accumulo

Una grande parte degli accumulatori presenta un comportamento di acquisto eccessivo, compulsivo: la maggior parte di loro compra un grande numero di oggetti “just in case”, ovvero oggetti che non sono necessari, ma che sono percepiti come potenzialmente utili, del genere “potrebbero servire” e “per ogni eventualità è bene averli” (Frost e Gross, 1993).

In questa avventura ho deciso di occuparmi proprio di questo, dello Shopping Compulsivo, caldamente suggeritomi dalla mia collega Chiara Lignola, dal momento che per alcuni aspetti, questo argomento mi rappresenta. Nella mia quotidianità, nel tempo libero, con amici e colleghi (vero Chiara?), spesso mi ritrovo a fare shopping e a parlare in genere di acquisti, insomma diciamo che non sono così insensibile alle strategie di marketing.

Affrontando questo viaggio mi sono sorpreso di come questo argomento, così legato al disturbo dell’accumulo e per alcuni autori in parte sovrapponibile, sia poco trattato e considerato, tanto da non avere una sua identità in termini diagnostici, visti anche i costi in termini non solo economici ma anche emotivi e sociali che tale problematica comporta. Allo stesso tempo mi sono reso conto di come, le determinanti psichiche sottostanti questo disturbo, siano sfruttate e amplificate dai sistemi di marketing per incentivare in ognuno di noi acquisti d’impulso, risultanti quindi non da valutazioni di tipo funzionale ma fortemente emotive.