Dico “sì” ma vorrei dire “no”

di Benedetto Astiaso Garcia

Ridurre ansia, stress, frustrazione e vittimismo imparando a dire di no: quali sono i timori e le paure che si celano dietro tale difficoltà?

Riuscire a dire di no significa mediare efficacemente i propri bisogni con quelli altrui, conferendo alle relazioni una necessaria connotazione di autenticità, trasparenza, onestà e chiarezza. Molto spesso, il desiderio di apparire gentili, il timore di essere rifiutati e la bramosia di essere amati, rispettati e accettati da tutti, rappresentano importanti ostacoli che, offuscando i propri bisogni emotivi, compromettono la capacità di stabilire dei limiti nelle relazioni interpersonali. Come illustrato dallo psicoterapeuta Giusti nel libro “L’assertività”, sono molti i condizionamenti che durante la crescita portano ad associare alla parola “no” una valenza di rifiuto personale e di offesa: in questo modo, quando si esprime il proprio diniego, si teme sempre di far sentire l’interlocutore rifiutato e ferito. Negare qualcosa a qualcuno, inoltre, innesca rappresentazioni mentali di abbandono e non accettazione, inducendo vissuti emotivi di colpa rispetto a un atteggiamento erroneamente considerato come egoistico, cattivo, presuntuoso e duro.

Un’eccessiva compiacenza, tuttavia, oltre a rendere sottomessi e iperadattati, rende impossibile una difesa dei propri spazi, finendo inevitabilmente con l’essere travolti da aspettative e richieste esterne. Di contro, sviluppare capacità comunicazionali assertive, ovvero capaci di bilanciare i propri bisogni con quelli altrui, arresta la tensione, riduce lo stress, diminuisce l’ansia e attenua risentimenti e frustrazioni.

L’infanzia della persona anassertiva è generalmente caratterizzata da figure genitoriali che, oltre a conferire eccessiva importanza agli aspetti formali dell’educazione, inibiscono l’espressione dei bisogni e dei desideri del bambino, colpevolizzandolo eccessivamente in caso di conflitto e rendendo il proprio legame affettivo precario e imprevedibile in termini di improvvisi e ingiustificati allontanamenti. Rispondere sempre positivamente alle richieste che arrivano da familiari, amici o colleghi, oltre a minare la salute psicofisica, genera forte malessere, insoddisfazione, abbassamento del tono dell’umore e feroce critica verso se stessi. Riconoscere i propri diritti senza cedere alle persuasioni altrui, invece, significa compiere un passo fondamentale verso lo stabilire i propri confini fisici e psicologici, mantenendo un buon equilibrio mentale ed evitando di esporsi a continui abusi e sfruttamenti. Valorizzare l’immagine di Sé, inoltre, permette di gestire i timori irrazionali prodotti da pensieri negativi e disfunzionali, quali per esempio: “Se subisco, tutti mi vorranno bene”, “Se dico di no, l’altro potrebbe sentirsi rifiutato o ferito”, “Se dico di no, gli altri mi rifiuteranno”, “Se dico di no, gli altri non mi accetteranno”, “I bisogni altrui sono più importanti dei miei”, “Se dico di no, rovino la relazione”, “Se dico no, l’altro si arrabbia”. Atteggiamenti sottomessi, indifesi e passivi, oltre a impedire l’espressione delle proprie richieste, inducono una canalizzazione della rabbia verso se stessi, generando scontentezza, frustrazione, inadeguatezza, timore del fallimento e paura del giudizio altrui. Dire sempre di sì, pur garantendo vantaggi a breve termine quali l’evitamento del conflitto e l’assunzione di minori responsabilità, genera importanti costi psicologici, dalla perdita progressiva di stima verso se stessi all’andare incontro a repentini e incontenibili scoppi d’ira. Compiacenza, iperadattamento e passività, pur illudendo inizialmente di tener salde le relazioni, finiranno con l’indurre rimpianti, autocritica e colpevolizzazione, non riuscendo a evitare i conflitti nel lungo periodo e provocando la rinuncia ad essere se stessi. Dire di no è un diritto fondamentale che necessita di essere riconosciuto a se stessi e agli altri.

Per approfondimenti:

GIUSTI E., TESTI A., “L’assertività”, Sovera Multimedia, Roma, 2014

 

“Ricordati che devi morire”

di Monica Mercuriu

Anche per i più superbi c’è una speranza di consapevolezza

Per superbia [dal lat. superbia, der. di superbus «superbo»] s’intende un’esagerata stima di sé e dei propri meriti (reali o presunti), che si manifesta esteriormente con un atteggiamento altezzoso e sprezzante e con un ostentato senso di superiorità nei confronti degli altri.
Nella teologia cattolica, è uno dei sette peccati capitali e consiste in una considerazione talmente alta di se stessi da giungere al punto di stimarsi come principio e fine del proprio essere, disconoscendo, così, la propria natura di creatura di Dio e offendendo quindi il Creatore. La superbia sarebbe quindi un desiderio ordinato secondo lo spirito del male, e causerebbe la morte dell’anima.
La connotazione sociale della superbia è anch’essa negativa, essere superbo o comportarsi da superbo non rende la persona che mostra tale atteggiamento apprezzabile né socialmente piacevole e spesso suscita sentimenti ed emozioni d’invidia, disprezzo e distacco emotivo negli altri.

Ma la superbia è così negativa e dannosa?

Arthur Schopenhauer, negli “Aforismi per una Vita Saggia”, descriveva con chiarezza la differenza tra superbia e vanità. Queste due, insieme all’ambizione, sarebbero il frutto della nostra insensata e naturale stoltezza, la propensione dell’uomo a considerare ciò che gli altri pensano di noi, molto più importante di quanto in realtà non lo sia.
La superbia, è la convinzione già esistente, della propria superiorità in un senso o nell’altro; la vanità è il desiderio di suscitare questa convinzione negli altri, accompagnato dalla speranza di riuscire a farla propria. Il superbo, secondo Schopenhauer, possiede una grande stima di se stesso che procede dall’interno ed è diretta, mentre il vanitoso aspirerebbe a ottenerla dall’esterno, cioè indirettamente.
A livello sociale ne consegue che il superbo spesso sarà taciturno e il vanitoso loquace: lo stesso autore esorta il vanitoso a tenere in considerazione che, per ottenere la stima degli altri e il loro apprezzamento, a volte è necessario tacere, pur avendo ottimi e invitanti argomenti da discutere.
Superbo non è chi non vuol esserlo, tutt’al più si può fare i superbi, col rischio di crollare miseramente durante questo tentativo e collezionare una serie di brutte figure che intaccherebbero comunque la propria immagine.

Il vero superbo è colui che intimamente crede di valere di più, di possedere doti superiori agli altri: questa convinzione incrollabile, salda e intima, può essere errata o puramente basata su elementi convenzionali o estetici, ma esiste sin da principio e si contrappone alla vanità di chi cerca plauso negli altri per costruirci sopra un’immagine positiva e un’alta opinione di sé.
Nonostante la superbia sia condannata e considerata puramente negativa, Schopenhauer suggerisce a chi possegga una qualche dote spiccata di tenerla sempre presente, perché questa non vada dimenticata; comportarsi con troppa accondiscendenza nei confronti dei pari, pur avendo doti reali e innate, rende l’individuo uguale agli altri e questo permette ai pari di trattarlo e considerarlo come uno di loro.
Tenere sempre presente una dote innata e reale, in alcune circostanze, potrebbe costituire anche un vantaggio e se si teme di eccedere con l’intensità e la quantità di superbia si può sempre far ricorso a un pensiero alternativo.

Nell’antica Roma, quando un generale rientrava nella città dopo un trionfo bellico e sfilando nelle strade raccoglieva gli onori che gli venivano tributati dalla folla, correva il rischio di essere sopraffatto dalla superbia e dalle smanie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse, un servo dei più umili veniva incaricato di ricordare all’autore dell’impresa la sua natura umana: lo faceva pronunciando la frase “memento mori” (“ricordati che devi morire”).
Quindi anche per più superbi, forse una speranza esiste, e come suggeriva Massimo Troisi nel film “Non ci resta che piangere”, segnarselo potrebbe essere di aiuto.

Per approfondimenti:

Schopenhauer, Arthur. Aforismi per una vita saggia. Bur, 2013.

Noi e gli altri… che fatica!

di Antonella D’Innocenzo

Quando i timori ostacolano le relazioni e il benessere psicologico

Le relazioni con gli altri possono diventare una grande fonte di stress nelle nostre vite. La famiglia, gli amici, l’ambiente di lavoro e, più in generale l’ambiente sociale in cui viviamo, costituiscono un ambito importante della nostra esistenza; se le relazioni sono soddisfacenti, ci riteniamo noi stessi, soddisfatti, appagati, felici. Ci sono situazioni però in cui le relazioni (sociali, affettive, lavorative, familiari) per vari motivi, suscitano ed innescano sentimenti di frustrazione, sottomissione, rabbia, delusione. Ci si può sentire incompresi, non supportati, esclusi, rifiutati, aggrediti, sfruttati, manipolati. Può accadere che si mettano in atto comportamenti volti ad esprimere la propria rabbia per essere riconosciuti, per riacquisire la percezione di controllo, di superiorità o semplicemente per ottenere ciò che si desidera, oppure che i propri bisogni, desideri, motivazioni vengano messi in secondo piano e ci si annulli per soddisfare le esigenze di chi ci circonda, allo scopo di evitare conflitti, essere apprezzati, essere amati.

Così, essere in contatto o comunicare con gli altri può rappresentare uno stato di minaccia e scatenare emozioni e reazioni comportamentali di attacco o di fuga che compromettono il raggiungimento di scopi per noi importanti, come quello di costruire e mantenere relazioni significative, di ottenere quello che si vuole e di cui si ha bisogno, di mantenere il rispetto per se stessi.

Quali possono essere i fattori che impediscono una buona efficacia interpersonale?

La mancanza di abilità necessarie a comunicare in modo efficace: non si sa cosa dire o come comportarsi; la difficoltà a decidere: si possiedono della abilità ma non si riesce a decidere cosa si vuole veramente (chiedere troppo oppure non chiedere nulla; dire “no”a tutto oppure accettare ogni cosa); la presenza nella mente di pensieri negativi durante le interazione ( “non gli piacerò; cercherà di litigare con me”; “sono una persona cattiva”; “non me lo merito”; “non lo farò bene”; “sono un fallito”); lo sperimentare emozioni molto intense ( collera, paura, vergogna, tristezza) che ostacolano la capacità di compiere azioni efficaci; le caratteristiche del contesto ambientale: le altre persone sono troppo percepite troppo forti (nonostante gli sforzi), oppure possono avere qualche motivo per non gradire che si ottenga quello che si desidera, o ancora non vogliono dare ciò di cui si ha bisogno a patto che non venga sacrificato il rispetto per se stessi.

Molto spesso esiste una reciproca responsabilità, tra noi e gli altri (affinchè gli eventi si sviluppino in queste direzioni), nel colludere con determinate dinamiche o addirittura nell’innescarle.

Cosa si può fare per fronteggiare e migliorare queste modalità comportamentali?

Un primo passo può essere rappresentato dal coltivare la consapevolezza, al fine di aiutarci a notare l’origine dello stress interpersonale e a modificare le risposte abituali poco utili al nostro benessere.

Essa, applicata all’osservazione della natura delle nostre relazioni, può diventare una lente d’ingrandimento rispetto all’origine, alla durata, all’intensità e alle conseguenze di certe azioni e reazioni, sia nostre che dei nostri interlocutori. Aprirsi all’osservazione può consentire ai meccanismi cristallizzati di iniziare a modificarsi, lasciando spazio all’apertura e all’accoglimento e alla disponibilità di cambiare ciò che è in nostro potere.

Inoltre, un allenamento alle abilità di efficacia interpersonale permette di sviluppare o potenziare quello che manca nel proprio repertorio comportamentale al fine di raggiungere gli obiettivi desiderati.

Per approfondimenti:

Mindfulness insieme. Coltivare la consapevolezza con se stessi, in coppia e sul lavoro, Maria Beatrice Toro, Stefano Serafinelli, Le Comete, Francoangeli, 2017

DBT Skills Training Manual, Second Edition, modulo di efficacia interpersonale, Marcha M. Linehan, Cortina Editore, 2015

Stalking: dall’intrusione all’omicidio

di Niccolò Varrucciu

Prevedere la durata, i comportamenti, il rischio effettivo e le risposte della vittima

 “Il 18 luglio 1989, Rebecca Lucile Schaeffer venne uccisa sulla porta della sua abitazione a West Hollywood da Robert John Bardo, un fan ossessivamente innamorato di lei che la perseguitava da anni. Nel 1987, dopo averle scritto numerose lettere, si recò a Los Angeles con la speranza di incontrare di persona l’attrice sul set di Mia sorella Sam, ma venne allontanato dalla sicurezza della Worner Bros. Furioso per l’accaduto, tornò un mese dopo armato di un coltello ma le guardie lo bloccarono nuovamente. Nel 1989, dopo aver visto al cinema la Schaeffer nel film Scene di lotta di classe a Beverly Hills, dove la ragazza compariva a letto in una scena di sesso con un attore, Bardo, pazzo di gelosia, decise che l’attrice doveva essere “punita” per essere diventata “un’altra puttana di Hollywood”. Bardo viaggiò fino a Los Angeles, suonò il campanello e le sparò a bruciapelo al torace”.

Prima di questo episodio, la criminologia aveva posto scarso interesse sui comportamenti molesti, intrusivi e reiterati a danno di qualcuno, poi racchiusi nel termine “stalking”: tratto dal verbo inglese “to stalk”, che nel linguaggio tecnico della caccia significa letteralmente “braccare, fare la posta, seguire, pedinare, perseguitare”, si riferisce a una serie di molestie assillanti, di comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza, controllo, ricerca di contatto e comunicazione, che troppo spesso sfociano nella violenza fisica.

Muller e collaboratori hanno suddiviso lo stalker in cinque tipologie:

  1. rifiutato, con un rapporto con la vittima ambivalente, caratterizzato da desiderio di vendetta e riconciliazione;
  2. in cerca d’intimità, fino al delirio di tipo erotomanico;
  3. il corteggiatore inadeguato, con basso funzionamento cognitivo e scarse abilità sociali;
  4. rancoroso, il cui obiettivo è spaventare e molestare la vittima;
  5. predatore, che progetta un’aggressione, che può prendere una deriva sessuale.

Un’ulteriore classificazione è quella multiassiale di Mullen e Purcell, in cui il primo asse riguarda la motivazione dello stalker e il contesto in cui agisce, mentre il secondo asse riguarda la natura del rapporto preesistente con le vittime di stalking.

Questa metodologia permette di individuare la funzione del comportamento, i processi d’innesco e di rinforzo. Inoltre, il comportamento viene contestualizzato, sia in termini ambientali sia di relazione con la vittima, per poter meglio comprendere gli obiettivi e le strategie dello stalker.
Il terzo asse prende in considerazione la diagnosi psichiatrica, suddivisa in area psicotica e non.

Dall’integrazione dei tre assi è possibile prevedere la durata dello stalking, la natura dei comportamenti, il rischio delle minacce effettuate e le risposte e le strategie a disposizione della vittima. Sulla base dei dati di letteratura, l’approccio terapeutico più efficace è risultato quello cognitivo comportamentale.

Tale intervento non può prescindere da una prima fase di psicoeducazione, in cui si spiega alla vittima (o vittime in caso di terapia di gruppo) il funzionamento psicologico e comportamentale dello stalker e le possibili reazioni che la stessa vittima potrà avere, le emozioni che potrà esperire e i comportamenti che con maggiore probabilità tenderà ad agire.

In seguito la terapia si focalizza sulla risoluzione del problema, cercando di aumentare le risorse esterne e attivando reti che possano fornire aiuto, pratico, sia esso di natura relazionale, sociale e legale.

In alcuni casi potrebbe essere utile aumentare il senso di sicurezza percepita tramite l’acquisizione di abilità di autodifesa, attraverso specifiche lezioni.

Inoltre, saranno analizzati gli episodi che la vittima ha vissuto come traumatici, cercando di ristabilire quel senso di sicurezza che permetta alle vittime di mantenere, o riprendere in casi di abbandono, le principali attività della vita quotidiana.

Per approfondimenti:

  •  Meloy, J. Reid. The Psychology of Stalking: Clinical and Forensic Perspectives, 2001, Academic Press, pag. 27.
  • M Pathe, PE Mullen, R Purcell; Stalking: false claims of victimisation; British Journal of Psychiatry 174: 170-172 (1999)

Lo strazio della scelta

di Daniela Fagliarone

Il lutto nell’interruzione terapeutica di gravidanza

“Cosa c’è di più naturale che avere un figlio per una coppia che si ama?”, “Quanto c’è di più innaturale nel decidere di togliergli la vita?”, “Meglio ora senza che se ne accorga o assistere comunque alla sua morte tra atroci sofferenze?”. Sono solo alcuni degli interrogativi che possono passare nella mente di una donna che deve prendere una decisione terribile: decidere o no di abortire dopo aver saputo che il bambino che aspetta è gravemente malformato o è affetto da una patologia genetica. Nella società odierna, da un lato le viene riconosciuto il diritto di scegliere il come e il quando della propria esperienza affettiva, dall’altro la pesante responsabilità della decisione di dispensare e togliere la vita ricade su di lei. L’aborto rappresenta l’esito di un conflitto insanabile tra due scelte: “Non voglio uccidere una vita” e “Non posso tenere questo figlio”. Un conflitto da cui non si può uscire senza una ferita profonda. Il lutto è una risposta naturale e fisiologica a tutte le situazioni di perdita in cui se ne esprime la sofferenza e il dolore.

La morte precoce di un bambino durante la gravidanza o dopo il parto, sia per aborto spontaneo sia per interruzione terapeutica o volontaria di gravidanza, determina sentimenti di lutto pari agli altri tipi di perdite. Si pensa spesso che una perdita perinatale per scelta non sia seguita da sofferenza emotiva, e quando ciò accade, spesso non è riconosciuta e individuata. Le emozioni sperimentate spaziano tra confusione, dolore, colpa, agitazione e rabbia. La reazione alla perdita spesso include difficoltà temporanee ad affrontare le attività di tutti i giorni, ritiro dalle attività sociali, pensieri intrusivi, sentimenti di apatia e insensibilità e indifferenza agli eventi esterni. Non necessariamente le emozioni ed i diversi passi del lutto avvengono nella stessa sequenza e hanno la stessa intensità e durata per tutti. Il percorso varia da persona a persona, e va da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni, alternando fasi di benessere a ricadute in periodi più dolorosi e difficili. Il lutto è un profondo processo personale che segue un corso abbastanza predicibile, con tipiche fasi quali stordimento, ricerca e struggimento per la persona perduta, disorganizzazione e disperazione e riorganizzazione. La loro alternanza dipende dalle risorse personali, dalla presenza nella propria storia di altre esperienze luttuose, dalla presenza/assenza di risorse sociali, nonché dalla presenza di risorse familiari e di coppia. Per non lasciare conseguenze psicologiche e ferite profonde, il lutto dovrebbe essere lasciato libero di fare il suo corso, trovare spazi di sostegno e di condivisione, essere un momento di svolta e di maturazione personale e non l’espiazione segreta e silenziosa di una colpa per cui non c’è perdono. Il lutto accade nonostante l’aborto sia un evento “scelto”, programmato, non accidentale e, nelle donne e nelle coppie che compiono questa scelta, resta spesso un doppio lutto, di perdita e di scelta di perdita, intimamente vissuto e solo raramente condiviso e condivisibile.
Il dolore si trasforma in un evento traumatico e patologico nel momento in cui non si è capaci o non è possibile esprimere in maniera aperta la rabbia e la tristezza. Per elaborare il lutto è fondamentale accettare l’esperienza vissuta, accettare la sofferenza che ne consegue. Non si tratta di razionalizzare l’evento, ma di stare con il dolore mentale, viverlo e tenerlo accanto senza esserne sopraffatti. Eliminare totalmente il dolore, cercando di non provare più alcuna emozione negativa o razionalizzando, contribuisce a complicare il lutto. Rielaborare un aborto non è dimenticare, è far sì che una ferita profonda diventi accompagnatoria, ossia che il figlio, o i figli, che non sono più in vita, diventino una presenza non persecutoria e fonte di sofferenza, bensì una presenza che accompagna la vita successiva della donna.

Per approfondimenti:

Cantelmi T., Cacace C. (2008) Aborto Volontario e salute mentale della donna: una review della letteratura internazionale, Google Scholar, Studia Bioethica,1(2): 1-13

Di Stefano R. (2013). L’interruzione volontaria di gravidanza. Psicoterapeuti in formazione, 12: 53-93.

Righetti P.L. (a cura di), (2010) Gravidanza e contesti psicopatologici. Dalla teoria agli strumenti di intervento, Franco Angeli, Milano.

Depressione. Cosa fare?

di Roberta Trincas

L’unico modo per evitare di essere depressi è non avere abbastanza tempo libero per domandarsi se se si è felici o no”. George Bernard Shaw

Recentemente, l’Organizzazione mondiale della sanità, nel Piano per la Salute mentale 2013-2020, ha considerato la depressione come “una delle principali cause di disabilità a livello mondiale”. Questo dato è supportato dall’osservazione che “aumenta del 40-60% il rischio di morte prematura” e “riduce l’aspettativa di vita di circa 20 anni”. La mortalità tende a essere più elevata non solo perché aumenta il rischio di suicidio ma anche perché spesso è accompagnata da “tabagismo, sedentarietà, alimentazione squilibrata, consumo eccessivo di alcol e altre sostanze”. Pertanto influisce su altre malattie, quali cancro, obesità e patologie cardiovascolari.

Nonostante vi sia ancora poco accesso ai trattamenti, studi di efficacia dimostrano che la Terapia Cognitivo Comportamentale è il trattamento di elezione per i disturbi depressivi.

Durante un’indagine, pubblicata a gennaio 2016 su METRO news (UK), è stato chiesto a diverse persone che hanno avuto esperienza di depressione, quali siano stati i modi con cui l’hanno affrontata.

L’aspetto interessante di questa semplice indagine sulle esperienze personali è che parte dalla considerazione che la depressione non è qualcosa che si può curare immediatamente, ma che è possibile gestire.

Alcune persone che hanno sofferto di depressione hanno regalato la loro esperienza raccontando alcune semplici strategie con cui l’hanno affrontata, parallelamente a un aiuto psicoterapeutico e farmacologico.

  1. “Ho iniziato a correre. Ho iniziato gradualmente, solo per perdere un po’ di peso e pian piano sono arrivato a correre diversi chilometri ogni giorno. Un giorno, mentre correvo, mi sono accorto che da diversi giorni non mi sentivo più depresso, ed è continuata così per un paio d’anni”.
  2. “Ho imparato a tenere la mia mente impegnata. Ho scoperto che mi sentivo molto depresso quando mi perdevo nei miei pensieri”.
  3. “Terapia, medicina. E vivere la vita giorno per giorno”.
  4. “Ho trovato un nuovo hobby, qualcosa di produttivo e piacevole da fare, e mi ci sono dedicata. Per esempio, suonare uno strumento, organizzare un’attività, ecc. Questo è stato utile, ha funzionato”.
  5. “I miei pochi amici intimi mi hanno aiutato. Mi chiamavano tutti i giorni, anche quando rispondevo male o dicevo di non voler sentire nessuno. Non mi hanno mai abbandonato, e questo mi ha salvato dalla depressione, Solo questo”.
  6. “Fai le cose poco alla volta e ogni giorno trova qualcosa di nuovo da migliorare. Ho superato le mie emozioni negative focalizzandomi sulla giornata, sul qui ed ora, piuttosto che sul futuro o sul passato”.
  7. “Onestamente, ciò che mi ha aiutato è stato fare delle cose che non avevo mai fatto prima. Come nel film ‘Yes Man’, ho semplicemente iniziato a fare le cose chiedendomi ‘perchè no?’; ho incontrato nuove persone e intrapreso attività nelle quali sono tutt’ora impegnato”.
  8. “Ho cominciato a fare attenzione ai momenti in cui mi sentivo depresso. Mi ha aiutato a identificare i ‘campanelli d’allarme’, e a realizzare ciò che mi faceva stare meglio. Mi sono scontrato con la depressione, ma ora la riconosco e non le permetto di influire sulla mia vita; il mio anti-depressivo è stato mantenermi impegnato. Per un periodo ho lavorato 70 ore a settimana”.
  9. “Ho smesso di preoccuparmi di ciò che le persone poco importanti potessero pensare di me e di cosa potessero dire di me”.
  10. “Ho cominciato a comportarmi con gentilezza e simpatia nei confronti delle altre persone e a pensare positivamente di me, inoltre mi sono posto degli obiettivi, anche semplici, e mi sono sentito efficace. Queste tecniche ‘fai-da-te’ hanno funzionato per me, e hanno avuto effetti a lungo termine”.
  11. “Ho staccato dai social, Facebook, Instagram, ecc. Ti senti peggio nel vedere le persone che mostrano ciò che vorresti per te. Trova qualcosa di semplice da fare che ti piace, forzati di fare qualcosa che non puoi avere in breve tempo. Fai esperienze”.
  12. “Stai lontano dagli alcolici”.
  13. “Perdona te stesso. Ho creato una regola di 10 minuti. Posso arrabbiarmi per qualcosa che ho fatto o che è successo per 10 minuti, dopo di che è il momento di lasciar andare e dedicarmi ad altro”.
  14. “Non guardare mai indietro. Impara e volta pagina”.

Alcune delle strategie descritte sembrano rappresentare la concretizzazione degli obiettivi che vengono in parte definiti nella psicoterapia per la depressione, come spostare l’attenzione sul qui e ora, definire obiettivi concreti, dedicarsi a sé, ridurre le aspettative, ridefinire i propri valori e interessi, circondarsi di persone amate.

Con parole semplici, queste testimonianze possono aiutare a comprendere in modo pratico ciò che può aiutare quotidianamente a gestire pensieri, sentimenti e comportamenti negativi e, in questo modo, compiere piccoli passi per uscire dalla depressione.

Se la religione diventa un’imposizione ossessiva

di Giuseppe Femia

Vietato provare piacere sessuale fuori dal matrimonio, evitare idee bizzarre e perverse, non ascoltare musica degradante

Se fossi cattivo, se diventassi pazzo, se mi scappasse una parolaccia mentre parlo, se fossi blasfemo? Se Dio esistesse? Chi può assicurarmi che non esista? Se mi punisse? Se non pregando mi trasformassi in qualcosa di malevolo? E se toccando quel “tipo”  mi fossi sporcato dei suoi peccati? Qualcosa non funziona! Forse dovrei rivedere i miei valori?

Questi pensieri potrebbero ricorrere in soggetti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), assillare la loro mente e pretendere controllo sul piano comportamentale.

La connessione fra il DOC e le severe regole religiose  si costituisce in quanto argomento complesso  e controverso.

Per quanto sarebbe interessante esplorarne la letteratura, da un punto di vista clinico, potrebbe risultare utile ricostruire le storie  e i vissuti riferiti in psicoterapia da soggetti per cui le regole religiose sembrano aver giocato un ruolo cruciale nello sviluppo di talune idee ossessive. Alle volte, le tematiche religiose diventano il centro dei pensieri intrusivi.

Alcuni autori indagano la relazione fra religione e ossessioni, segnalando una maggiore predisposizione verso soluzioni di soppressione del pensiero nei soggetti che hanno ricevuto  un’educazione di tipo religioso, rispetto a chi non pratica  in modo intransigente.

Il signor T. teme di essere blasfemo, peccatore, omosessuale e di poter essere colpevole rispetto a un valore morale rigido.

Le strategie di controllo funzionerebbero da espiazione verso eventuali peccati commessi.

Attualmente, riferisce con gioia la sua separazione dalla confraternita dei testimoni di Geova: “Mi avrebbero vietato la separazione dalla mia ex moglie con cui ero infelice”.

Durante le sedute racconta di giornate trascorse a leggere di principi religiosi e minacce contro di essi; che la masturbazione nel suo sviluppo era proibita e di aver sofferto a causa di episodi di bullismo subiti quando predicava le regole della confraternita.

Adesso non condivide i dettami religiosi, tuttavia manifesta il timore di essere colpevole, rumina nel terrore di essere pericoloso e sporco, sino a sentirsi in dovere di compiere rituali di lavaggio dopo attività proibite (bere, fumare una sigaretta, praticare piacere sessuale).

Spesso non sa bene chi sia: rigido e severo, oppure libero, intraprendente, dannato.

Nonostante sappia di non voler essere come sua madre, che descrive come “severa e religiosa”, finisce per somigliarle e rispondere a quelle regole che lei gli poneva mediante punizioni:  lo guardava con disprezzo e lo lasciava solo fino a quando non le leggeva la Bibbia per essere prontamente interrogato con il costante terrore di non poter essere perdonato o non poter recuperare. Le imposizioni religiose e le modalità punitive sembrano segnare la vulnerabilità storica e giocare un ruolo circa lo sviluppo della sintomatologia. Secondo il modello teorico postulato da Francesco Mancini, vige una forte connessione fra l’insorgenza di un disturbo ossessivo e la presenza di un attitudine all’essere scrupoloso e vulnerabile alla colpa morale; essa generalmente si presenta come risposta ad un sistema di riferimento in cui sono sovrani il dovere, il senso di colpa e metodi educativi di tipo punitivo.

Appare plausibile considerare che tali situazioni siano tanto più forti, quanto legate a credi religiosi dettati da un contesto familiare costrittivo. Dunque, nonostante le idee religiose siano da trattare con prudenza, e per questioni deontologiche, il clinico sia tenuto a non esprimere pareri a riguardo, esse potrebbero essere un fattore di rischio, qualora subite.

In conclusione, non si vuole manifestare un giudizio sui credi religiosi, bensì evidenziare come l’imposizione dei medesimi, dietro ricatti di diverso tipo, possa incrementare una credenza di Sé come colpevole o debole sino a richiedere un assillante controllo dei propri desideri, pensieri, al fine di scongiurare la possibilità di somigliare a qualcosa di prossimo alla sporcizia, alla perversione, al “male” con cui non mescolarsi mai, per nessuna ragione e in nessun grado.

Per approfondimenti:

Sica C., Novara C., Sanvio E. (2002), Religiousness and obsessive-compulsive cognitions and symptoms in an Italian population.Behavoiur Research and Therapy, 40, 813-823.

Mancini F. et al. (2016), “La mente ossessiva”.

I costrutti psicologici dell’ansia

di Alessandra Nachira

Obbligo di controllo, perfezionismo patologico, pensiero catastrofico, autovalutazione negativa e intolleranza dell’incertezza

Secondo la teoria cognitiva i costrutti principali dell’ansia sono lo sproporzionato timore del danno e la tendenza a previsioni catastrofiche, la tendenza al controllo, l’intolleranza dell’incertezza, il timore dell’imprevisto, il timore dell’errore o perfezionismo patologico e l’autovalutazione negativa. Queste credenze sono sempre o spesso presenti nei vari disturbi d’ansia così come sono definiti dal DSM-IV e anche in altri disturbi con elevata componente ansiosa, come i disturbi alimentari o l’ipocondria.Il terreno psicologico comune dei fenomeni clinici noti come ansia, rimuginio, panico e fobie è l’emozione della paura. Il contenuto cognitivo della paura implica una valutazione di pericolo e danno imminente. La tendenza a produrre previsioni negative e catastrofiche è presente in maggioranza nei soggetti ansiosi. Leggi tutto “I costrutti psicologici dell’ansia”

Genitore = primo regolatore emotivo del bambino

di Ilaria Martelli Venturi

Come gli indici espressivi degli adulti influiscono sulla gestione delle emozioni dei piccoli

Uno dei compiti più difficili per un bambino piccolo è riuscire a gestire gli stati fisici e le emozioni e a controllare e regolare il proprio comportamento. Lo sviluppo di un adeguato livello di autoregolazione è fondamentale per creare le basi per lo sviluppo di un’ampia varietà di funzioni. Infatti, la capacità di autoregolazione, consente di affrontare adeguatamente compiti sociali e cognitivi, di adattarsi positivamente ai cambiamenti e di fronteggiare con padronanza le difficoltà.

Sebbene questo tipo di abilità continui a svilupparsi fino all’età adulta, è nei primi anni di vita che avvengono cambiamenti particolarmente importanti ed è il genitore ad avere un ruolo fondamentale affinché i processi regolatori possano svilupparsi e maturare in modo adeguato, favorendo il passaggio dalla regolazione emotiva diadica all’autoregolazione. Leggi tutto “Genitore = primo regolatore emotivo del bambino”