Una configurazione prototipica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo all’MMPI-2

di Silvia Assisi

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disordine mentale invalidante, caratterizzato da pensieri ricorrenti, persistenti, egodistonici ed intrusivi e da comportamenti o atti mentali ripetitivi. Questi comportamenti hanno lo scopo di prevenire o ridurre l’ansia e lo stress sperimentati o di neutralizzare le ossessioni correlate.

Esistono diverse interviste strutturate finalizzate alla valutazione della sintomatologia ossessiva, tra le quali la Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS) e il Padua Inventory (PI). Tuttavia, al fine di discriminare in maniera più esaustiva le diverse manifestazioni cliniche del disturbo, sarebbe importante adottare una procedura integrata di valutazione, che includa differenti metodi e strumenti di indagine, come ad esempio l’utilizzo del Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2). Il suo utilizzo, infatti, potrebbe garantire l’individuazione di caratteristiche personologiche e, di conseguenza, portare a descrivere un funzionamento più profondo del disturbo.

La letteratura scientifica, fino ad oggi, ha rilevato come un punteggio elevato alla scala Pt dell’MMPI-2 sia strettamente correlato alla presenza di pensieri ossessivi, a processi di ruminazione mentale e a rituali e comportamenti di controllo, elementi centrali del disturbo. In questi soggetti, inoltre, è stato riscontrato un significativo incremento anche delle scale Sc e Pd.

Tuttavia, la letteratura non ha ancora identificato un profilo prototipico del DOC al test MMPI-2. Pertanto, lo studio condotto da Femia e colleghi (2020) si è proposto l’obiettivo di identificare una configurazione prototipica del DOC tramite l’utilizzo dell’MMPI-2, al fine di discriminare – in fase di assessment – le caratteristiche chiave del funzionamento psicologico del disturbo e di distinguere la sintomatologia ossessiva da quella tipica di altri quadri sintomatologici. Lo studio ha sottolineato come alcune risposte fornite al test, infatti, possono essere dettate dal funzionamento ossessivo, portando ad un’elevazione dei punteggi su scale generalmente prototipiche di altri disturbi psicopatologici.

Gli autori dello studio, tra le ipotesi di ricerca, avevano prefigurato:

  • un aumento del punteggio della scala Pt – a conferma dei dati già presenti in letteratura – che indica la presenza di un comportamento iper-prudenziale e ossessivo;
  • un punteggio più alto della scala Pa rispetto alla scala Hy;
  • una correlazione tra la scala Pt e la scala Mf;
  • un punteggio più alto della scala Sc rispetto alla scala Hs o un’equivalenza di punteggi tra le scale;
  • la presenza di una configurazione specifica HPC in pazienti ossessivi, che li distingue da pazienti con altri disordini.

Il campione dello studio condotto era costituito da 395 partecipanti, suddivisi in tre categorie diagnostiche (1. Disturbo Ossessivo-Compulsivo; 2. Disturbo di Panico e Agorafobia; 3. Disturbi dell’Umore), ai quali sono stati somministrati un questionario demografico, l’MMPI-2 e la Y-BOCS.

Le analisi statistiche condotte da Femia e colleghi hanno evidenziato come i pazienti con Disturbo Ossessivo- Compulsivo abbiano riportato elevati punteggi a tre scale cliniche specifiche dell’MMPI-2, vale a dire Pt, D e Sc, e una correlazione positiva tra le scale Pt, Sc e Pa, dando vita ad una configurazione che permette di distinguere i pazienti con DOC da altri pazienti con diagnosi di Disturbi dell’Umore, Disturbi di Panico e Agorafobia.

Nello specifico, gli autori hanno supposto che questi risultati fossero l’evidenza empirica della comune esperienza clinica sperimentata con questi pazienti, connotata spesso da:

  • ragionamenti iper-prudenziali e altre compulsioni (Pt);
  • bias di ragionamento cognitivo, con il vissuto depressivo che ne consegue (D);
  • tendenza a sperimentare timori di impazzimento e ruminazioni, a discapito delle relazioni interpersonali (Sc).

Gli autori dello studio hanno riscontrato anche una correlazione positiva tra il punteggio alla scala Pt e il punteggio ottenuto dai pazienti alla Y-BOCS, suggerendo l’ipotesi che la scala Pt possa essere un buon predittore della gravità della sintomatologia ossessiva.

È stata evidenziata, inoltre, una correlazione tra i punteggi bassi delle scale Pt e MF, giustificata, secondo gli autori, dalla presenza – nei pazienti ossessivi – dei pensieri proibiti, già descritti da Mancini come pensieri che coinvolgono la colpa deontologica, intollerabile per i pazienti con DOC.

L’elemento innovativo e di interesse clinico che hanno messo in evidenza gli autori attraverso questo studio è stato quello di riscontrare una particolare configurazione HPC del disturbo (Pt, D, Sc), che potrebbe chiarire il confine tra il DOC e il funzionamento psicotico e nevrotico. Comunemente, le scale Pt e Sc, infatti, sono associate all’area di funzionamento psicotico. Tuttavia, nel caso del DOC, punteggi elevati alle scale potrebbero assumere un significato diverso da quello dell’alterazione del pensiero: potrebbero essere associati alla paura dei pazienti di diventare pazzi a causa dei loro pensieri ossessivi, giustificando quindi l’innalzamento della scala Sc. L’elevazione di questa scala non è stata riscontrata nei gruppi di controllo: gli autori hanno ipotizzato che questo innalzamento, in un quadro psicopatologico ossessivo, potrebbe essere considerato come una conseguenza determinata dalle ossessioni che condurrebbero all’evitamento e quindi a deficit interpersonali, piuttosto che essere correlata alla presenza di sintomi psicotici.

In conclusione, gli autori dello studio hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale il ragionamento iper-prudenziale e altri bias di ragionamento caratteristici dei pazienti ossessivi possano rendere ragione di elevati punteggi a queste scale, portando i pazienti a rispondere in maniera affermativa agli items che indagano la coerenza e la qualità del pensiero.

La configurazione specifica emersa potrebbe essere una guida valida ed efficace in fase di valutazione iniziale del disturbo al fine di identificare e discriminare gli indicatori caratteristici del DOC, distinguendolo da altri disturbi psicopatologici.

Bibliografia:

Butcher, J. N. (2016). Preparing for Court Testimony Based on the MMPI-2 Guide 6th Edition. Minneapolis: Department of Psychology University of Minnesota. Retreived July 12, 2020 from: http://mmpi.umn.edu/documents/Preparing%20for%20Court%20Testimony%20Based%20on%20the%20MMPI-2.pdf

Femia, G., Gragnani, A., Cosentino, T., Giacomantonio, M., Diano, F., Bernaudo, A., Pellegrini, V., Mancini, F. (2020). A prototypical MMPI-2 configuration of Obsessive-Compulsive Disorder. Mediterranean Journal of Clinical Psychology, 8(3). https://doi.org/10.6092/2282-1619/mjcp-2554

Goodman, W. K., Price, L. H., Rasmussen, S. A., Razure, C., Fleischmann, R. L., Hill, C. L., … & Charney, D. S. (1989). The Yale-brown obsessive compulsive scale: I. Development, use, and reliability. Archives of General Psychiatry 46(11), 1006-1011. https://doi.org/10.1001/archpsyc.1989.01810110048007

Mancini, F. (A Cura di, 2016). La Mente Ossessiva. Curare il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Milano: Raffaello Cortina

Sanavio, E. (1988). Obsessions and compulsions: the Padua Inventory. Behavior research and therapy, 26(2), 169-177. https://doi.org/10.1016/0005-7967(88)90116-7.

Si può disimparare il disgusto?

di Luciana Ciringione
a cura di Brunetto De Sanctis

Il disgusto è implicato in diverse psicopatologie sia in associazione ad altre emozioni come la paura (ad es. nelle fobie specifiche), sia in sindromi complesse quali il disturbo post-traumatico da stress e il disturbo ossessivo-compulsivo. La sua funzione principale è quella di proteggere gli individui da possibili agenti contaminanti provocando un comportamento di evitamento rispetto ad essi.

Uno dei trattamenti più utilizzati nella riduzione delle emozioni legate a comportamenti disfunzionali è l’esposizione in vivo: sembra infatti essere particolarmente efficace nella riduzione della paura. Tuttavia, non ci sono evidenze chiare sulla sua efficacia nella riduzione del disgusto.

Questo potrebbe essere possibile perché nel disgusto la minaccia non è sempre visibile ad occhio nudo, come invece avviene per la fobia specifica: nella nostra reazione di evitamento ci affidiamo quindi non tanto all’esposizione allo stimolo, quanto alle informazioni che abbiamo disponibili sulla sicurezza dello stimolo (safety).

Nello studio di Bosman e colleghi (2016), è stata testata l’ipotesi relativa all’aggiungere informazioni sulla safety dello stimolo come intervento per favorire l’estinzione della risposta di disgusto. Per far ciò, è stato sviluppato un paradigma di condizionamento in cui dei cibi sono stati accoppiati con video a contenuto disgustoso, apprendendo una risposta condizionata di disgusto. Dopodiché alcuni partecipanti sono stati sottoposti alla visione di video con informazioni sulla safety degli stimoli condizionati (una donna mangia uno dei due cibi e usa il suo telefono mentre l’altro cibo resta esposto vicino a lei). Infine, è stato effettuato un compito comportamentale per verificare il cambiamento in termini di comportamento di approccio/evitamento verso gli stimoli condizionati (Behavioral Approach Task): i due alimenti vengono messi su piatti separati coperti e numerati e viene chiesto ai partecipanti di scoprire il piatto che viene loro indicato e dare un morso al cibo sottostante.

A corroborare la validità dello studio, sono state acquisite misure esplicite di self-report sulla valenza degli stimoli, acquisite durante ciascuna fase del condizionamento. È stata inoltre aggiunta come misura implicita l’attività, misurata tramite elettromiografia, del muscolo levator labii superioris alaeque nasi, specifico per il disgusto, e del corrugatore, associato alle valenza negativa alle emozioni più in generale.
Le misure self-report sono state riacquisite dopo 1 e 7gg per eventuali effetti a lungo termine.

I risultati hanno evidenziato un effettivo apprendimento del disgusto per stimoli precedentemente neutri, riportato sia dalle misure self-report che fisiologiche. L’apprendimento persiste anche nelle misure self-report acquisite nei due follow-up, indicando quindi un possibile apprendimento a lungo termine. Tuttavia, l’estinzione sembra non essere efficace nonostante le varie condizioni sperimentali introdotte per testare l’effetto delle informazioni sulla safety degli stimoli.

Sembra quindi che il disgusto sia effettivamente facile da apprendere, ma difficile da disimparare.

È comunque possibile che le informazioni sulla safety siano state veicolate in modo troppo debole affinché venissero codificate in modo efficace. Inoltre, potrebbe essere necessario considerare l’idea alternativa di introdurre una misura di contatto fisico (Rozin & Fallon, 1987) che potrebbe avere un impatto maggiore rispetto a una mera esposizione visiva.

Questo aspetto è decisamente rilevante se considerato all’interno del trattamento di psicopatologie legate al disgusto, per cui è importante che si continui ad indagare per capire i meccanismi coinvolti ai fini della programmazione di trattamenti riabilitativi.

Bibliografia

Bosman, R. C., Borg, C., & de Jong, P. J. (2016). Optimising extinction of conditioned disgust. PloS one11(2), e0148626.

Rozin, P., & Fallon, A. E. (1987). A perspective on disgust. Psychological review94(1), 23.

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Embodied Mindfulness

di Claudia Ajello

“Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu”
San Tommaso D’Aquino

Negli ultimi anni la comunità scientifica si è interessata sempre di più alla Mindfulness ed il numero degli studi dedicati all’argomento è aumentato esponenzialmente. Tuttavia, questa crescita è anche il riflesso del fatto che, in assenza di un’univoca e condivisa definizione operativa, molti approcci hanno fatto ricorso al termine attribuendogli significati diversi. Il termine Mindfulness deriva dalla parola “sati” in lingua Pali (i.e. attenzione consapevole, attenzione nuda) e viene riferita, in generale, al concetto di “consapevolezza” e attenzione al momento presente. In letteratura, è stata principalmente concettualizzata dall’approccio tradizionale buddista e dall’approccio occidentale psicologico moderno come quello di Jon Kabat-Zinn. Seppur anche all’interno delle stesse tradizioni la mindfulness è definita in modi diversi, secondo gli autori della revisione è possibile rintracciarne nel concetto di “embodiment” (incarnamento) un terreno comune. La teoria dell’embodiment, considera il corpo come un elemento costitutivo della mente e sottolinea la natura incarnata della cognizione. La mente è radicata nelle esperienze corporee dell’organismo e immersa nell’ambiente con cui l’organismo interagisce continuativamente. Utilizzando questa cornice teorica il concetto di “Embodied Mindfulness” proposto dagli autori pone l’accento sull’aspetto incarnato della consapevolezza che non è più una funzione meramente simbolica e concettuale ma affonda le sue radici nell’esperienza corporea e implica una relazione reciproca tra mente, corpo e ambiente (Varela et al., 1991). Questa visione mette d’accordo le diverse tradizioni. Nell’approccio buddista corpo e mente sono considerati intrinsecamente connessi. Lo stato mentale ha una sua espressione nel soma e al tempo stesso le sensazioni corporee sono l’aspetto incarnato degli stati mentali. Nella tradizione occidentale psicologica le meditazioni sulle sensazioni corporee sono presenti in ogni sentiero di pratica e considerate fondamentali per sviluppare lo stato di mindfulness. Inoltre, la nozione di Mindfulness come “consapevolezza incarnata” trova fondamento nella neurobiologia moderna, in particolare nell’integrazione tra processi top-down e bottom up. Ci sono evidenze che la Mindfulness, utilizza sia strategie top-down che bottom up essendo connessa a una regolazione flessibile dell’attenzione e alla consapevolezza degli stimoli interni ed esterni (Chiesa et al., 2013). Vi è quindi un generale accordo sul fatto che la meditazione basata sulla mindfulness porta all’aumentata consapevolezza delle interazioni bidirezionali tra stati corporei e processi cognitivi ed emotivi (Michalak et al., 2012). Tuttavia, nonostante le evidenze, il concetto della mindfulness embodied è in larga parte trascurato dalla ricerca scientifica e l’aspetto corporeo è marginale in tutti i moderni questionari di misurazione della Mindfulness. Pertanto gli autori propongono di considerare nella misurazione psicometrica dei livelli di Mindfulness, il questionario MAIA (Mehling et al., 2012) nato per indagare la consapevolezza enterocettiva. In conclusione secondo gli autori il concetto di “embodiment”, che più di ogni altro aspetto integra le diverse tradizioni, trova fondamento nei dati scientifici e permette di dare una definizione operativa necessaria per studiare scientificamente la mindfulness. Infine, potrebbe essere il meccanismo che rende conto dell’efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness.

Articolo di riferimento

Khoury, B., Knäuper, B., Pagnini, F., Trent, N., Chiesa, A., & Carrière, K. (2017). Embodied mindfulness. Mindfulness, 8(5), 1160-1171

Approfondimenti bibliografici

Chiesa, A., Serretti, A., & Jakobsen, J. C. (2013). Mindfulness: top-down or bottom-up emotion regulation strategy? Clinical Psychology Review, 33(1), 82–96.

Mehling, W. E., Price, C., Daubenmier, J. J., Acree, M., Bartmess, E., & Stewart, A. (2012). The multidimensional assessment of interoceptive awareness (MAIA). PloS One, 7(11), e48230.

Michalak, J., Burg, J., & Heidenreich, T. (2012). Don’t forget your body: mindfulness, embodiment, and the treatment of depression. Mindfulness, 3(3), 190–199.

Khoury, B., Knäuper, B., Pagnini, F., Trent, N., Chiesa, A., & Carrière, K. (2017). Embodied mindfulness. Mindfulness, 8(5), 1160-1171.

Varela, F. J., Thompson, E., & Rosch, E. (1991). The embodied mind: cognitive science and human experience. Cambridge: MIT Press

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The Space Program

di Sonia Ghislanzoni

I disturbi d’ansia, tra i disturbi psichiatrici, sono quelli più diffusi nell’infanzia, sono un onere per la famiglia, comportano costi per la società e un impatto negativo sullo sviluppo del bambino. La CBT è spesso efficace per l’ansia infantile, ma molti bambini continuano anche dopo il trattamento a presentare sintomi significativi. La CBT aiuta a sviluppare abilità per identificare i pensieri disadattivi, autoregolare l’ansia e richiede collaborazione tra bambino e terapeuta, spesso non raggiungibile. Molti pazienti rifiutano di partecipare alla terapia per evitare di confrontarsi con le proprie paure o perché preferiscono non ammettere di avere un problema e altri potrebbero evitare l’ansia attraverso l’accomodamento familiare. Tendenze oppositive potrebbero precludere una alleanza produttiva tra clinico e bambino e se non è possibile che il bambino partecipi al trattamento o se non è responsivo alla terapia, il training parentale può offrire un’alternativa. La formazione dei genitori è risultata efficace nel trattamento di altri disturbi e nei disturbi esternalizzanti, in cui la motivazione del bambino al trattamento è spesso bassa, il parent training è un risultato efficace. Il ruolo dei fattori famigliari nell’ansia infantile e il successo del lavoro dei genitori in altri disturbi hanno evidenziato che il coinvolgimento dei genitori nel trattamento d’ansia infantile potrebbe migliorarne i risultati. Varie teorie, come la teoria dell’attaccamento, descrivono il legame tra genitori e figli e il modo in cui l’ansia attiva quei legami, stimolando i bambini a ricercare sicurezza e protezione. L’ansia è adattiva in caso di una minaccia reale, ma è disadattiva se ripetutamente attivata da stimoli innocui. Le risposte dei genitori all’ansia del bambino potrebbero diventare un “innesco” ripetuto del sistema di attaccamento che porta i genitori a essere protettivi e questo può incoraggiare la continua dipendenza dei bambini dai genitori per regolare o evitare il loro stato affettivo interiore. The Space Program, progettato per 10/12 sessioni settimanali, è un intervento rivolto ai genitori, li aiuta a indirizzare aspetti della relazione genitori/figli plasmati dall’ansia ricorrente e si basa sulla modifica del comportamento con un atteggiamento meno protettivo, sostituendolo con uno di supporto che favorisca le capacità di coping e di autoregolazione. Fornisce strumenti pratici per superare le difficoltà tra cui insegnare l’autodisciplina, affrontare i comportamenti distruttivi e migliorare la collaborazione tra i genitori. Uno studio di 10 sessioni settimanali a cui parteciparono genitori di 10 bambini di età fra 9 e 13 anni che avevano rifiutato il trattamento individuale, ha riportato un miglioramento significativo nell’ansia del bambino, nel coinvolgimento famigliare e sulla motivazione del bambino al trattamento individuale. The Space Program è risultato efficace nell’ansia infantile, tuttavia necessitano ulteriori e più controllati studi per indagare l’efficacia di questo programma, dato che le variabili genitoriali e famigliari, come l’ansia dei genitori e altre psicopatologie, potrebbero potenzialmente influire sulla capacità di beneficiare del programma.

Riferimenti bibliografici

Eli R. Lebowitz, Haim Omer, Holly Hermes, Lawrence Scahill, Parent Training for Childhood Anxiety Disorders: The SPACE Program, Cognitive and Behavioral Practice, Volume 21, Issue 4, 2014, 456-469
https://doi.org/10.1016/j.cbpra.2013.10.004.

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Depressione negli studenti universitari: come curarla?

di Francesca Manco
curato da Elena Bilotta

Si stima che il 20-30% degli studenti universitari soffra di disturbo depressivo maggiore. Gli studenti universitari, infatti, si trovano a sperimentare una serie di fattori di stress unici che li rendono particolarmente vulnerabili alla depressione. Questi fattori di stress possono essere ad esempio l’allontanamento da casa, l’adattamento a un nuovo ambiente, fattori di stress accademici, un sistema di supporto sociale potenzialmente instabile, problemi economici, aumento dell’uso di sostanze, privazione cronica del sonno. A ciò si aggiunge il fatto che durante il periodo universitario  accelera negli studenti il processo di sviluppo dell’identità e la libertà di esplorare nuove carriere, stili di vita, relazioni e visioni del mondo.

Quanto finora esposto ha portato la comunità scientifica a sottolineare l’importanza di attuare interventi adeguati al fine di aiutare gli studenti a superare i sopra elencati momenti di difficoltà.

Tuttavia, gli interventi psicoterapeutici per studenti depressi in contesti universitari scontano un supporto empirico limitato nonostante, nei pochissimi studi clinici presenti, se ne sono potuti rilevare i potenziali benefici.

Per sopperire a tali lacune presenti nella letteratura, in un recente studio (il primo di questo tipo),

McIndoo e collaboratori hanno condotto un’indagine preliminare sull’efficacia dell’attivazione comportamentale (BA) e della terapia basata sulla Mindfulness (MBT) in forma abbreviata  sugli studenti universitari, nel contesto di un disegno di ricerca controllato randomizzato.

L’attivazione comportamentale si basa sulla teoria del comportamento e sulla premessa che la depressione viene alleviata aumentando il rinforzo positivo contingente alla risposta; tale intervento terapeutico è stato scelto per la sua brevità, l’evidenza empirica sulla sua efficacia e il suo elevato potenziale di divulgazione tra i professionisti clinici che lavorano con gli studenti universitari.

I principi fondamentali dell’MBT riguardano invece la regolazione dell’attenzione, l’apertura all’esperienza presente, la curiosità e l’accettazione del “qui ed ora” e la consapevolezza non giudicante dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni e dell’ambiente; la citata terapia basata sulla Mindfulness è stata scelta in quanto dati di ricerca recenti supportano la sua efficacia nel trattamento della depressione.

In questo studio si è visto come gli interventi abbreviati di BA e MBT sono associati a riduzioni significative della depressione, dello stress percepito e della ruminazione in un campione di studenti universitari. Inoltre si è visto come tali miglioramenti sono stati in gran parte mantenuti a un mese di follow-up, fornendo un supporto preliminare relativamente al fatto che entrambi gli interventi somministrati possono nel breve termine suscitare benefici continuativi per la salute mentale. Sebbene questi risultati richiedano una replica (soprattutto a causa del campione molto limitato), i dati suggeriscono che sia BA che MBT possono ridurre in maniera efficace la depressione negli studenti universitari.

Questo studio, quindi, da una parte aggiunge ulteriore supporto nella letteratura già presente sull’efficacia di BA e MBT per il trattamento della depressione; dall’altra, la somministrazione di questi due interventi in forma abbreviata (e per quanto riguarda la somministrazione dell’MBT anche in forma individuale) sembra essere un ottimo compromesso in termini di tempo, costi ed efficacia per i contesti universitari.

Bibliografia

McIndoo, C.C.; File, A.A.; Preddy, T.; Clark, C.G.; Hopko, D.R. (2016). Mindfulness-based therapy and behavioral activation: A randomized controlled trial with depressed college students. Behaviour, Research and Therapy77, 118–128.

 

 

Narcisista maligno in psicoterapia

di Fabiana Gino
curato da Elena Bilotta

Il narcisismo maligno viene descritto da Otto Kernberg come una variante del narcisismo patologico contenente, oltre ai classici elementi di grandiosità, anche alcuni elementi quali la paranoia, il sadismo, l’aggressività e la psicopatia. Il narcisista maligno interpreta le azioni degli altri con una forte propensione alla paranoia e vi risponde con un’abbondanza di aggressività, presenta inoltre una persistente volontà di dominanza sociale. Difatti, quando il narcisista maligno esprime la propria aggressività verso gli altri, sperimenta un aumento della propria autostima e del suo Sé grandioso.

Kernberg, con il suo gruppo di ricerca coordinato da Lenzenweger, ha effettuato uno studio per verificare se a livelli elevati di narcisismo maligno (considerato come dimensione della personalità e non diagnosi categoriale) corrispondesse un più lento declino dell’ansia nel tempo e un più lento miglioramento del funzionamento psicosociale globale dell’individuo.

Il campione della ricerca era composto da 57 soggetti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità (DBP) secondo il DSM-IV. Per un periodo di 12 mesi ai soggetti venivano somministrate ripetutamente nel corso del tempo due scale: la Brief Symptom Inventory-Anxiety Scale (BSI-A) per misurare i livelli di ansia, e la Global Assessment of Functioning (GAF) per valutare il livello di funzionamento psicosociale/psicologico dell’individuo.

Rispetto alle variabili indagate da queste scale, sono state considerate alcune componenti considerate in linea con la concettualizzazione del narcisismo maligno come dimensione della patologia della personalità:

  • La “Predisposizione paranoica”, che include l’esternalizzazione della colpa, la sospettosità e il rancore verso gli altri;
  • La “Dominanza impavida”, che comporta uno stile interpersonale privo di paura e di tendenza alla dominanza sociale;
  • Il “Cuore freddo”, caratterizzato da una propensione all’aggressività dalla capacità di manipolazione e mancanza di empatia.

I pazienti con DBP citati in questo studio, venivano trattati con 1 di 3 possibili trattamenti per pazienti con DBP, già trattati in un precedente studio di Clarkin et al. (2007) per un periodo di 12 mesi. L’assegnazione al trattamento era randomizzata. I ricercatori avevano ipotizzato che elevati livelli di narcisismo maligno avrebbero rallentato in modo significativo il progresso terapeutico, in particolare in termini di miglioramento psicologico/psicosociale globale e di riduzione dell’ansia.

In linea con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato che il narcisismo maligno aveva un’associazione significativamente più forte con un più lento miglioramento del funzionamento generale (punteggi GAF) a prescindere dal tipo di trattamento utilizzato; inoltre, i comportamenti antisociali risultavano correlati a rallentamenti nel miglioramento dell’ansia.

Questi risultati suggeriscono come il narcisismo maligno possa esercitare un impatto importante sul miglioramento globale della persona, anche in individui trattati, in questo caso in pazienti con DBP.

In particolare, il narcisismo maligno sembra influenzare il decorso di un disturbo di personalità, o la risposta al trattamento, anche quando il disturbo primario non è di tipo narcisistico.

BIBLIOGRAFIA:

Clarkin, J. F., Levy, K. N., Lenzenweger, M. F., & Kernberg, O. F. (2007). Evaluating three treatments for borderline personality disorder: A multiwave study. The American Journal of Psychiatry, 164(6), 922–928.

Lenzenweger M, F, Clarkin J, F, Caligor E, Cain N, M, Kernberg O, F: Malignant Narcissism in Relation to Clinical Change in Borderline Personality Disorder: An Exploratory Study. Psychopathology, 2018;51:318-325.

Nuove prospettive ipnotiche

di Vanessa Paladini e Ilaria Lucia Rollo

Il progresso delle neuroscienze, grazie allo sviluppo ed al perfezionamento di tecniche elettrofisiologiche e di neuroimaging, ha contribuito, tra discordie e controversie, ad abbattere la concezione dell’ipnosi come qualcosa di “mediatico”, “not-evidence-based”, fornendo dei rilevanti contributi in merito alla descrizione di questo processo. Gli studi intrinseci e strumentali in ambito neuroscientifico, hanno cercato di comprendere inizialmente quale fosse la natura dell’ipnosi: stato alterato di coscienza, realtà, oppure simulazione? Una rilevante quantità di ricerche ha fornito una risposta a tale quesito, individuando delle regioni di interesse (ROI: region of interest) nella condizione di ipnosi neutra, ovvero corteccia occipitale, talamo, corteccia cingolata anteriore, corteccia parietale inferiore e prefrontale dorsolaterale.Anche le analisi elettroencefalografiche hanno consentito di tracciare una distinzione tra soggetti in stato di veglia e soggetti in stato di trance ipnotica, attraverso l’utilizzo di alcuni indicatori.

È stato possibile, inoltre, dar prova a livello evidence-based, dell’efficacia dell’ipnosi nel controllo del dolore: una delle sue più remote applicazioni. Il dolore coinvolge componenti sensori-discriminative, motivazionali-affettive e valutative (attentive), si è ipotizzato che la stessa ipnosi agisca su molteplici meccanismi di modulazione del dolore.

Dagli studi di neuroimaging sull’analgesia ipnotica emerge che gli effetti neurofisiologici di quest’ultima dipendono dalle particolari suggestioni fornite: in particolare una suggestione ipnotica che ha come finalità quella di ridurre il grado di spiacevolezza del dolore, ma non di ridurne l’intensità, è connessa con una diminuzione dell’attività della corteccia cingolata anteriore (ACC), preposta alla codifica della componente motivazionale-affettiva del dolore, nessuna modifica era osservata nell’attività della corteccia somatosensoriale primaria (S1), responsabile dell’elaborazione della componente sensoriale-discriminativa dello stimolo doloroso (Ranville et al.,1997).Contrariamente, per quelle suggestioni che avevano come obiettivo quello di ridurre l’intensità dello stimolo nocicettivo è stata osservata una riduzione dell’attività della corteccia S1 ma non di quella dell’ACC (Hofbauer et al., 2001).Questi risultatidimostrano chel’ipnosi può agire in maniera disgiunta sulle diverse componenti della percezione dolorosa, risaltandone il suo carattere dinamico (De Benedittis, 2009).E’ stato osservato, inoltre, che il processo ipnotico sia in grado di regolare i complessi meccanismi del sistema nervoso centrale e periferico, in particolare il segnale di variabilità cardiaca (De Benedittis, 1994); in un’altra ricerca (Langloade, 2002), è emerso, invece, come anche segnali di calore esterni che potenzialmente possono generare dolore, influiscono sull’attivazione delle fibre A-delta e C, dando una valida, seppur non esaustiva, spiegazione dell’effetto analgesico.Anche altre percezioni sono state oggetto di studio per quanto concerne la capacità di modulazione della suggestione ipnotica. In particolare, per la percezione uditiva e visiva dello stimolo, è stato dimostrato (Szechtman, 1998) che durante fenomeni dispercettivi indotti durante la fase ipnotica come le allucinazioni auditive, le aree cerebrali coinvolte sono sostanzialmente le stesse.

Interessante risulta, infine, il legame tra processi mnemonici e memoria: in uno studio di neuroimaging (Mendelsohn, 2008), è emerso come l’eliminazione di memorie episodiche durante la fase ipnotica, conduca aduna modificazione nelle aree cerebrali responsabili del richiamo a lungo termine (corteccia temporale, occipitale e prefrontale). Come si evince il rapporto tra ipnosi e neuroscienze non è più oggetto di dispute e controversie. Esso è basato su un metodo scientifico,che implica la necessità di attribuire un valore empirico a un argomento che, ancor prima delle ricerche sperimentali, è stato oggetto di mistificazione non correlata alla realtà oggettiva. 

Riferimenti bibliografici:“Il cervello ipnotico: un ponte tra neuroscienze e psicoterapia” di Giuseppe de Benedittis – Idee in Psicoterapia- n°3 -2009

Il costrutto dell’assertività

di Doriana Chirico
a cura di Olga IIriti

Tra pensiero, comportamento ed emozione

L’assertività è la capacità di esprimere opinioni personali, bisogni e desideri, tenendo conto e rispettando quelli altrui (Rakus, 1991). Questo stile di comunicazione permette di stabilire relazioni interpersonali positive, costanti nel tempo e reciprocamente gratificanti, attraverso 4 abilità fondamentali:

    • Espressione di sentimenti negativi;
    • Espressione e gestione dei limiti personali;
    • Prendere l’iniziativa;
    • Espressione di sentimenti positivi.

Al contrario, lo stile di comunicazione aggressivo (tendenza a considerare sé stessi, i propri bisogni e diritti come più importanti di quelli altrui) e lo stile di comunicazione passivo (tendenza ad evitare i conflitti interpersonali, di esprimere le proprie idee e sperimentare disagio emotivo) rappresentano condizioni di anassertività.

Obiettivo di questo lavoro è la presentazione del primo studio sperimentale sulla correlazione tra gli schemi cognitivi assertivi ed il comportamento assertivo negli adolescenti.

Vagos e Pereira (2010) hanno proposto il primo modello cognitivo dell’assertività, secondo il quale esisterebbero degli schemi cognitivi responsabili del comportamento assertivo. A partire da questi assunti, nel 2019 si sono occupati della valutazione empirica di:

    • effetti diretti e indiretti (attraverso lo studio del disagio) degli schemi cognitivi assertivi sul comportamento assertivo;
    • effetti diretti delle varie forme di disagio legate all’assertività sulla stessa espressione del comportamento assertivo.

Sono stati somministrati a 679 adolescenti (di età compresa tra i 15 e i 20 anni) l’Assertive Interpersonal Schema Questionnaire (AISQ, Vagos and Pereira, 2010) e la Short Scale for Interpersonal Behavior (s-SIB, Vagos et al., 2014).

Alla luce dei risultati ottenuti, sembrerebbe che gli schemi assertivi siano in grado di predire in maniera diretta la presenza di disagio e di espressioni comportamentali dell’assertività. Nello specifico sono implicati due schemi cognitivi assertivi: Controllo interpersonale e Abilità personale affettiva.

Lo schema del Controllo Interpersonale sarebbe rilevante nel sentirsi meno a disagio e comportarsi in modo assertivo: mostrando sentimenti negativi o positivi, esprimendo e gestendo i limiti personali e prendendo l’iniziativa. Se il soggetto si sente in grado di gestire i problemi interpersonali, probabilmente comprenderà il valore di selezionare un giusta modalità espressiva di comportamento assertivo in base alla richiesta sociale. Questo schema assume una particolare rilevanza in quanto è in linea con il concetto di assertività empatica (Rakus, 1991), secondo il quale le relazioni sarebbero caratterizzate da una reciproca soddisfazione emotiva e strumentale.

L’Abilità Affettiva Personale predice in modo significativo la frequenza di esprimere sentimenti positivi e di sentirsi meno a disagio nel farlo. Questo è in linea con gli assunti della Compassion Focused Therapy, secondo cui si tende a considerare sé stessi come persone degne e di valore nonostante le imperfezioni individuali. Questo concetto potrebbe essere generalizzato anche agli altri, considerandoli allo stesso modo.

Provare un’emozione negativa, infine, avrebbe un effetto inibitorio sul comportamento assertivo, riducendone la frequenza in futuro.

In conclusione, lo studio di Vagos e Pereira ribadisce l’importanza di schemi cognitivi assertivi nell’adottare uno stile assertivo, verificandone la presenza in un campione di adolescenti.

Riferimenti bibliografici

Vagos, P., & Pereira, A. (2019). Towards a cognitive-behavioral understanding of assertiveness: effects of cognition and distress on different expressions of assertive behavior. Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy, 37(2), 133-148.

Vagos, P., & Pereira, A. (2016). A cognitive perspective for understanding and training assertiveness. European Psychologist.

Vagos, P., & Pereira, A. (2010). A proposal for evaluating cognition in assertiveness. Psychological Assessment, 22(3), 657.

W.A Arrindell, R Sanderman, W.J.J.M Hageman, M.J Pickersgill, M.G.T Kwee, H.T Van der Molen, M.M Lingsma (1990). Correlates of assertiveness in normal and clinical samples: A multidimensional approach, Advances in Behaviour Research and Therapy, Volume 12, Issue 4, 1990, Pages 153-282, ISSN 0146-6402, https://doi.org/10.1016/0146-6402(90)90004-A.

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Le emozioni come lenti sul mondo

di Alessandra Capuozzo
a cura di Elena Bilotta

La revisione della letteratura presentata da De Berardis e colleghi (2017) vuole valutare la relazione tra alessitimia e rischio suicidario in diverse classi di pazienti: Disturbi Depressivi, di Disturbi d’Ansia e di disturbi dell’umore come Disturbo dell’Alimentazione Binge e Disturbo Bipolare.

Il tratto alessitimico è stato studiato negli articoli analizzati da De Berardis e colleghi (2017) con l’utilizzo di un test apposito, TAS-20. La TAS-20 studia tre aspetti dell’alessitimia: Difficoltà a Identificare le emozioni, Difficoltà ad Esprimere le emozioni, Pensiero Orientato verso l’Esterno. Il denominatore comune che sembra aumentare il rischio suicidario in pazienti psichiatrici sembra essere la Difficoltà ad Identificare le Emozioni. In effetti, non sembra cosí strano, considerando che l’incapacità ad identificare le proprie emozioni può destabilizzare fortemente il paziente. Facciamo giusto un esempio, un paziente che soffre di BED (Binge Eating Disorder) durante una giornata potrà trovarsi ad affrontare una situazione per lui/lei stressante, come ad esempio un litigio familiare. Questo evento, che potrebbe essere un evento scatenante per l’abbuffata, indurrà sensazioni cosí forti e insopportabili per il paziente che metterà in atto l’abbuffata. Immaginate quanto debba essere forte e intensa quest’emozione tanto da indurre ad una perdita di controllo sull’assunzione di cibo. Se unito a questo ci aggiungiamo un incapacità di comprendere i segnali del proprio corpo e interpretare tali segnali come un emozione sgradevole, il paziente sarà completamente in balia delle sue emozioni. Se questo diventa il normale modo di vivere del paziente, a lungo termine potrebbe determinare un insofferenza tale da rendere la propria vita insopportabile e quindi aumentare le ideazioni suicidarie.

L’associazione su basi biologiche, invece, ancora non è molto chiara. De Berardis e colleghi (2017) hanno evidenziato come l’ideazione suicidaria sia legata a bassi livelli di lipoproteine ad alta densità (o colesterolo “buono”) in pazienti con attacchi di panico, oppure come tale rischio suicidario sia inoltre caratterizzato da una pronunciata infiammazione all’asse ipotalamico-pituitariale-adrenale in pazienti con uno stato di alessitimia cronica.

In conclusione, attualmente non è ancora ben chiaro quali siano le caratteristiche biologiche che aumentano il rischio suicidario in pazienti psichiatrici con alessitimia, ma sembra esserci una relazione tra alessitimia e ideazione suicidaria. Nello specifico, la capacità di comprendere le proprie emozioni assume in questo contesto un ruolo fondamentale, considerando che le emozioni sono le lenti con cui leggiamo il mondo. Se le nostre lenti sono offuscate e non ci fanno vedere, come possiamo agire nel mondo?

Bibliografia:

De Berardis D., Fornaro M., Orsolini L., Valchera A., Alessandro Carano A., Vellante F., Perna G., Serafini G., Gonda X., Pompili M., Martinotti G. and Massimo Di Giannantonio M. (2017). Alexithymia and Suicide Risk in Psychiatric Disorders: A Mini-Review. Frontiers in Psychiatry, Vol. 8, p. 1-6. DOI: 10.3389/fpsyt.2017.00148