Hikikomori: il disturbo della “porta chiusa”

 di Caterina Parisio

Tra fenomeno culturale e patologia

“Hikikomori mi calza a pennello; descrive perfettamente ciò che SONO e FACCIO da qualche anno. Non ricordo nemmeno più da quando ho cominciato a isolarmi dagli altri”.
Carlo è un ragazzo di 22 anni, non esce di casa da più di otto. Ha interrotto gli studi, non ha nessuna amicizia, tranne rapporti virtuali mantenuti attraverso una chat di gruppo. Trascorre gran parte delle sue giornate chiuso in camera. Nell’ultimo anno è uscito due-tre volte e prevalentemente in orari serali. Ha invertito quasi del tutto il ciclo sonno-veglia: dorme sino a tardi e la notte, chiuso in camera, sta davanti al pc, chatta, legge fumetti manga (sua grande passione).
Il termine “Hikikomori” è stato coniato dallo psichiatra Tamaki Saito e tradotto dallo stesso in “social withdrawal” (ritiro sociale), anche se le sue prime manifestazioni in Giappone vennero descritte nel 1978 da Kasahara, per riferirsi a soggetti che abbandonavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi e che non erano altrimenti diagnosticati come depressi o schizofrenici. Hikikomori è una patologia diagnosticabile in persone che hanno trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle attività scolastiche o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori della famiglia. Il periodo medio di isolamento sociale è di circa 39 mesi, ma può variare da pochi mesi a parecchi anni. Solitamente riguarda giovani di età compresa tra 19 e 30 anni, maschi primogeniti nella maggioranza dei casi, che decidono di rinchiudersi volontariamente in una stanza, evitando qualunque contatto con il mondo esterno, familiari inclusi. Solo il 10% dei soggetti interessati è di sesso femminile e di solito il periodo di reclusione è limitato. Secondo alcuni, il numero degli adolescenti Hikikomori riconosciuti è di circa due milioni (l’1% della popolazione, percentuale simile all’incidenza della schizofrenia) e il dato è in continua crescita nonostante i casi dichiarati siano inferiori rispetto alle stime.
I sintomi della sindrome dell’Hikikomori descritti da Saito sono: ritiro sociale, fobia scolare e ritiro scolastico, sintomi ossessivi-compulsivi, apatia, letargia, umore depresso, inversione del ritmo circadiano di sonno veglia.
Spesso, l’Hikikomori è stato erroneamente confuso con la schizofrenia a motivo del ritiro sociale e della bizzarria della sintomatologia, ma le allucinazioni e i deliri, caratteristici di un disturbo del pensiero sul versante psicotico, non sono presenti. La diagnosi di un disturbo dell’umore potrebbe essere presa in considerazione per la possibile presenza di deflessione dell’umore, scarsa autostima, apatia e alterazioni del ritmo sonno-veglia.
In Giappone molti medici utilizzano la diagnosi di disturbo evitante di personalità per Hikikomori, in quanto esistono delle analogie tra i due disturbi con un pattern comportamentale di evitamento spesso pervasivo. Anche il disturbo schizoide di Personalità potrebbe richiedere l’esigenza di una diagnosi differenziale con Hikikomori, in cui tuttavia è presente adeguata critica e sensibilità alle gratificazioni.

Per quanto l’Hikikomori sia un fenomeno sociale e una problematica della cultura giapponese, anche nella nostra società ci troviamo sempre più spesso di fronte a ragazzi che si ritirano dalla scuola, dal lavoro e dalla vita sociale per rinchiudersi in casa. Questi giovani vivono il rapporto con l’altro con estremo dolore e paura, il mondo esterno diviene minaccioso, forte è il timore del giudizio e della derisione. L’evitamento di situazioni sociali, l’isolamento, il ritiro in un mondo fantastico, sono le consuete modalità di fronteggiamento: internet e la tecnologia, spesso unici mezzi per la costruzione di un’identità accettabile e un’interazione sicura, sono gli unici modi per presentarsi a un mondo minaccioso.
Il trattamento di questa problematica, spesso silenziosa e inosservata, è di fondamentale importanza per rompere la reclusione volontaria dei ragazzi, per permettere loro di vivere la relazione con l’altro in modo sereno e di reinserirsi in un contesto sociale e in un progetto di vita.
“Il mio programma è sempre stato quello di rimandare e alla fine evitare, evitare, evitare tutto. Se ci penso bene in fondo sto persino evitando di vivere. Il muro che ho davanti è troppo grande, non so se riuscirò mai ad abbatterlo”.

 

Per approfondimenti:

Aguglia, M.S. Signorelli, C. Pollicino, E. Arcidiacono, A. Petralia, Hikikomori phenomenon: cultural bound or emergent psychopathology?, Giorn Ital Psicopat 2010;16:157-164

 

“Ti prego, non lasciarmi!”

di Benedetto Astiaso Garcia

Comprendere e riconoscere il timore dell’abbandono: quali modi di pensare, di sentire, di agire, di percepirsi e di entrare in relazione si celano dietro tale paura?

Il timore dell’abbandono, come illustrato dallo psicoterapeuta Young nel libro “Reinventa la tua vita”, si origina negli anni dell’infanzia e sviluppa modelli comportamentali e relazionali, definiti come “trappole”, destinati a influenzare la percezione di sé e la qualità dei rapporti interpersonali nell’età adulta. Oltre a una connessione con il patrimonio genetico della persona, relazioni con figure genitoriali disfunzionali, trascuranti e imprevedibili affettivamente possono contribuire in maniera significativa alla sviluppo di modelli cognitivi ed emotivi di qualità abbandonica. A partire da un ambiente familiare destabilizzante, iperprotettivo, soffocante, traumatico e poco accudente, il bambino non riesce a rappresentarsi nella propria mente una presenza che si prenda cura stabilmente di lui, non percependosi come autonomo, unico e degno d’amore.
Il sentimento dell’abbandono consiste nella convinzione di perdere le persone amate, obbligando il soggetto a una vita priva di legami affettivi su cui poter contare e fare affidamento. All’interno delle relazioni, inesorabilmente percepite come destinate al fallimento, si cela sempre il timore di essere condannati a rimanere soli, allarmandosi per qualsiasi minaccia di allontanamento o separazione, che sia reale o immaginaria. Tale timore, attivato prevalentemente all’interno delle relazioni intime, induce a interpretare qualsiasi comportamento del partner, anche quello  più innocente, come un’intenzione di abbandono, sviluppando nell’individuo immaginari futuri di disperazione, isolamento, terrificante solitudine e incapacità a provvedere a se stesso. La ferma convinzione che la propria vita dipenda da un’altra persona innesca rapporti interpersonali instabili, turbolenti e travagliati, all’interno dei quali si oscilla tra il desiderio di controllare l’altro, attraverso un attaccamento eccessivo, e la fuga dalle relazioni intime, al fine di prevenire possibili scenari di perdita. Il timore di non ricevere l’affetto di cui si ha bisogno genera cicli emozionali di angoscia, dolore e rabbia, producendo intense manifestazioni di gelosia e possessività, destinate tuttavia ad avverare la più terribile delle profezie temute: rimanere realmente soli. Sabotare le proprie relazioni, infatti, significa rendere reale ciò che maggiormente si vorrebbe fuggire nel proprio immaginario, stancando, aggredendo e mettendo eccessivamente alla prova le intenzioni altrui nei confronti del rapporto interpersonale. All’interno di tale modello, al fine di ricercare un senso di familiarità che rievochi ciò che si è vissuto in passato, vengono favorite relazioni sentimentali precarie, connotate da un attaccamento eccessivo verso il partner, che viene ricattato, punito e accusato continuamente di infedeltà ogni qualvolta il timore di perdita dovesse diventare più forte. Ricercare figure instabili, non disposte a impegnarsi seriamente, emotivamente disturbate e ambivalenti nel comportamento, rappresenta solamente uno dei tipici campanelli d’allarme di tale modello comportamentale.
È possibile superare il timore dell’abbandono modificando i propri “pattern”, ossia le configurazioni emotive e cognitive, autodistruttive e ricorrenti, che impediscono il superamento di tale “trappola”. Oltre al cercare di comprendere ed elaborare dinamiche di abbandono subite in passato, risulta fondamentale monitorare i propri vissuti emotivi di solitudine e perdita, riesaminare i timori ricorrenti all’interno dei rapporti interpersonali, ricercare rapporti positivi e lavorare sul tema della fiducia, della separazione e dell’ambivalenza emotiva vissuta a livello relazionale.

Per approfondimenti:

YOUNG J.E., KLOSKO J.S., “Reinventa la tua vita”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004

Il suicidio in adolescenza

di Luca Cieri

Come attivare una rete terapeutica e familiare di prevenzione e di sostegno

In queste ultime settimane si è tanto parlato del Blue Whale, fenomeno che, al netto delle polemiche sull’attendibilità delle notizie e sull’effettivo numero di ragazzi che ne sono realmente venuti a contatto, ha acceso ancora una volta i riflettori sui tanti rischi che i minori corrono attraverso l’uso di Internet e dei social network: la possibilità di essere adescati da adulti, la dipendenza da internet e videogiochi, l’esposizione precoce a immagini e video (con contenuti espliciti sessuali, violenti o horror) non idonei per l’età adolescenziale e pre-adolescenziale.

Tali fenomeni possono facilmente generare nell’opinione pubblica, nei genitori e negli adulti che si ritrovano ad essere figure di riferimento dei ragazzi (insegnanti, educatori, allenatori e così via) reazioni contrastanti. Da una parte reazioni di indiscriminato allarme (“anche mio figlio passa molto tempo su internet e ha pochi amici, allora ci dobbiamo preoccupare?” ) alle quali si può reagire con controlli e divieti eccessivi (divieto di andare su internet) e invasioni della privacy (controllare di nascosto il telefonino ai figli). Dall’altra, atteggiamenti di sottovalutazione (“è soltanto una moda!”), di stigma e negazione (“ne sono vittima solo ragazzi fragili/problematici già in precedenza!”) o di impotenza (“non posso controllare i miei figli, speriamo bene”!).

Dei tantissimi spunti di riflessione che questa vicenda pone, uno su tutti è quello di aver riportato l’attenzione sul fenomeno del suicidio in adolescenza, che rappresenta, almeno nelle società con condizioni igienico-sanitarie minime garantite e senza guerre in corso, la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali in questa fascia d’età.

Un punto da cui partire è sicuramente quello della prevenzione, che in questo caso coincide con il riconoscimento, il più possibile precoce, degli adolescenti in difficoltà a potenziale rischio suicidario. Fra questi, lo sono quelli che presentano alcuni disturbi psicologici, in particolare il disturbi depressivi e bipolari, la schizofrenia, il disturbo borderline di personalità. Altri ragazzi a rischio possono non presentare questi disturbi, ma vivere tuttavia uno stato di intenso e intollerabile disagio psicologico, un vissuto di solitudine e l’esaurimento delle forze personali, della speranza di uscire da questa situazione, della capacità di provare piacere e delle energie. In queste condizioni, il suicidio comincia ad essere percepito come una soluzione praticabile.

Occorre, inoltre, sfatare il mito che parlare di suicidio sia controproducente: al contrario, è importante comunicare che si può parlare di suicidio, in un contesto calmo, sicuro, accudente e non giudicante. Il suicidio non è un atto improvviso ma un processo, durante il quale la persona dà segnali (parlare di suicidio, isolarsi, trascurarsi, esprimere mancanza di speranza).

Riconoscere questi stati a rischio in un adolescente, come nell’adulto, è quindi fondamentale per intervenire attraverso l’attivazione di una rete terapeutica (che passa per la psicoterapia, il trattamento farmacologico e l’eventuale possibilità di un ricovero) e familiare di sostegno.

Parlare di suicidio, in modo semplice e calmo ai ragazzi, a scuola come in famiglia, aiuta a ridurre lo stigma presente storicamente in molte culture e società, a dare strumenti di aiuto a chi potrebbe esserne a rischio e a diminuire i rischi di emulazione.

Per i genitori che hanno timore che il figlio stia vivendo un malessere di questo tipo è utile, in modo discreto e disponibile, offrire vicinanza e ascolto e chiedere una consulenza psicologica per dirimere dubbi e interrogativi.

E anche qualsiasi adolescente, che avverte o viene a conoscenza di un simile stato di disagio in un compagno o amico, può esprimere vicinanza all’interessato e condividere le proprie impressioni con un adulto di riferimento.

Per approfondimenti:

Tatarelli L. e Pompili M. (2009). La Prevenzione del Suicidio in Adolescenza. Alpes

“Posso venire nel lettone?”

di Giulia Panarelli

Dormire con i genitori è positivo per lo sviluppo psicofisico del bambino? Fino a quale età si può fare?

Le difficoltà di addormentamento e i risvegli notturni dei bambini mettono a dura prova i genitori che, sempre più stanchi, si interrogano sul da farsi e credono sempre meno nelle loro competenze genitoriali.
Il “co-sleeping” (dormire insieme) ha diverse modalità in base alle ore di permanenza per notte, alla stabilità nel tempo, allo spazio condiviso e al periodo di vita.
Nei primi giorni di vita e nei mesi successivi, dormire nel lettone può avere degli effetti benefici sullo sviluppo del bambino: contribuisce alla regolazione delle funzioni biologiche del figlio, regolarizza il battito cardiaco, la respirazione, la temperatura corporea, aumenta le difese immunitarie, migliora il sonno, aumenta il senso di protezione e sicurezza, la produzione di ormoni. Leggi tutto ““Posso venire nel lettone?””

Persistere è sempre la strada per la felicità?

di Mauro Giacomantonio

Saper disinvestire dagli scopi irrealizzabili è tanto importante quanto persistere di fronte alle difficoltà

Persistere, insistere, non mollare di fronte alle difficoltà. Questa sembra essere la ricetta della felicità che alcuni film, canzoni e libri suggeriscono. Il mito della persona che non si arrende mai e che, incurante della fatica, del dolore e della bassa possibilità di successo, segue i suoi sogni e le sue aspirazioni, si incarna nell’eroe popolare moderno, da Rocky a Frodo Baggins.

La psicologia ha spesso implicitamente assecondato l’idea dietro a questa immagine eroica, occupandosi dello studio dell’autocontrollo, cioè della capacità di perseguire uno scopo anche quando questo ci costa molti sforzi perché difficile, improbabile o minacciato da altri scopi (cioè da tentazioni). Si è quindi a lungo studiato quali fattori potessero aiutare gli essere umani ad autocontrollarsi, con l’assunzione di fondo che questa fosse la via maestra per il benessere psicofisico.

Ed effettivamente si sono raccolte molte prove del fatto che chi riesce ad autocontrollarsi avrà poi più possibilità di successo negli studi e sul lavoro, relazioni più soddisfacenti e una salute migliore.

Grazie ad alcuni recenti studi, però, sappiamo che questa non è che parte della storia. Cosa significa autocontrollarsi per un ragazzo che viene lasciato dalla sua fidanzata? Insistere e cercare di riconquistarla in modo romanzesco o lasciar perdere, rassegnarsi e, col tempo, cercare l’amore altrove? Cosa significa autocontrollarsi per una persona che viene licenziata? Intentare una lunga causa al datore di lavoro o formarsi per cercare un nuovo lavoro? E per una persona a cui viene diagnosticata una malattia rara? Cercare da solo una cura o rassegnarsi facendo buon viso a cattivo gioco?

Negli esempi riportati sopra, le persone si trovano di fronte a comunissimi eventi della vita in cui alcuni scopi importanti (amore, lavoro, salute) vengono compromessi in modo quasi certamente irrecuperabile.  In questi casi bisogna spesso affrontare un dilemma: continuare a investire energie nello scopo compromesso cercando di recuperare quanto si è perso, oppure disinvestire, abbandonare lo scopo, accettare la perdita e indirizzare l’attenzione su altre strade.

Se la vita fosse un film, il dilemma non esisterebbe, e la via della tenacia oltre ogni limite sarebbe l’unica opzione sul piatto. Ma poiché questa, fortunatamente, non è la realtà, le persone devono ben ponderare se sia veramente conveniente persistere o se non sia meglio disinvestire. Un’interessante filone di ricerca ha mostrato come la capacità di disinvestire sistematicamente di fronte a scopi che sono messi profondamente in discussione e su cui si ha scarso controllo, è altamente benefico. Questo infatti aumenta la capacità di adattarsi agli eventi e permette di raggiungere comunque gli scopi di vita più importanti percorrendo vie alternative. Tornando all’esempio del ragazzo che viene lasciato,  si immagini che stare con Maria (la sua ex) fosse uno scopo e allo stesso tempo un mezzo per provare la sensazione di essere accettato incondizionatamente. Se il ragazzo dovesse decidere di non disinvestire sulla relazione compromessa, continuando a pensare alla ex, alla loro relazione e via dicendo, non solo rischierebbe di non riavere la sua relazione con Maria, ma sarebbe anche bloccato nel perseguimento dello scopo  “sono accettato incondizionatamente”. Se invece riuscisse a rinunciare a Maria definitivamente, potrebbe molto presto trovare un’altra ragazza che lo farà sentire accettato. In altre parole, disinvestire da uno scopo minacciato, apre la strada ad altri scopi che, in ultima istanza, potrebbero portare comunque alla meta finale desiderata.

Il discorso è diverso quando si ha ancora un certo potere di salvare l’obiettivo compromesso, in altre parole un certo grado di controllo sulla situazione. In quel caso persistere, e investire energie potrebbe essere ancora sensato e utile.

Come distinguere i due tipi di situazioni? E quali sono i fattori che possono aiutare le persone nel difficile processo di disinvestimento? Ne parleremo in altri articoli sempre su cognitivismo.com

L’amore al tempo dei vampiri

di Maurizio Brasini

Ovvero: perché la storia del narcisista maligno e della vittima empatica è una iper-semplificazione, ed è più utile immaginare che ogni coppia di amanti infelici si regga sulla segreta speranza di rompere un incantesimo

Amanda è una donna sulla quarantina che, nonostante la sua notevole bellezza, si considera sfortunata in amore. Non ha mai avuto una relazione stabile perché si è sempre innamorata di uomini che definisce “vampiri emotivi”, che si nutrivano del suo amore fino a prosciugarla e poi la gettavano via. Approda in terapia dopo le vacanze trascorse col suo attuale compagno, un uomo più grande di lei, ricco e affascinante. Lei lo aveva raggiunto nella sua villa sulle Dolomiti; si prospettava una situazione idilliaca, e invece era stato un disastro. Amanda aveva un problema ad un ginocchio, ma lui la costringeva ad interminabili arrampicate quotidiane e, in un paio di occasioni, la aveva letteralmente abbandonata lungo il sentiero: “smettila di frignare”, le diceva.

Inoltre, ogni sera lui organizzava qualche ricevimento, cosicché non potevano stare mai da soli; lei si era sentita come un trofeo che lui prima esibiva e poi metteva da parte. La richiesta di Amanda era semplice, perché aveva letto in Internet dell’esistenza dei narcisisti maligni, e aveva riconosciuto in pieno il profilo del suo compagno, per cui aveva bisogno di un aiuto esperto per liberarsi di lui. L’unico problema era che lei… lo amava perdutamente. Perché lui, quando era in vena, era galante e passionale e sapeva farla sentire la donna più speciale del mondo.

In storie come questa possiamo riconoscere un prototipo di relazione sentimentale in cui uno dei due partner appare soggiogato e sfruttato dall’altro. E in un rapporto vittima-carnefice, sembra ragionevole intervenire per liberare la vittima, proprio come chiede Amanda. Eppure, la visione incentrata sul narcisista maligno che vampirizza la vittima empatica si rivela parziale, e fuorviante l’obiettivo terapeutico di liberare la prigioniera.

Ascoltando attentamente Amanda, si capisce che il suo persecutore è anche l’uomo che occasionalmente la fa sentire amata, lei così sola e sfortunata; cioè: lui è anche un salvatore. Inoltre, Amanda riconosce le fragilità di quest’uomo ed è desiderosa di guarirlo col proprio amore; cioè: lui è anche una vittima. Persecutore, salvatore e vittima sono tre facce incompatibili dello stesso uomo, e Amanda sembra non saper decidere: qual è la sua vera natura? Peggio ancora; a seconda dei momenti, la povera Amanda sembra “vedere” una sola delle tre facce e “dimenticare” le altre due.

In effetti, una possibilità è aiutare Amanda a semplificare il suo dilemma a tre facce, confermarle che il suo compagno è in realtà un vampiro, offrirle dei rimedi per conoscere meglio come funzionano i vampiri in modo da poterlo smascherare, sconfiggere e riconquistare finalmente la propria libertà. Implicitamente, tuttavia, avremo anche confermato ad Amanda la sua visione di se stessa e degli uomini, e reiterato il suo destino di donna sfortunata in amore, che può al massimo liberarsi dai vampiri per rimanere sola, perché in un mondo popolato dai vampiri la solitudine è il prezzo per la libertà.

Ragionando di amori e vampiri insieme al terapeuta, viene in soccorso ad Amanda una sua eroina, la protagonista di “Twilight” che, proprio come lei, è innamorata di un vampiro. Nel romanzo, tuttavia, il vampiro rinuncia a nutrirsi del sangue della sua amata e lei a sua volta si astiene dall’utilizzare i propri poteri anti-vampiro contro di lui. Amanda si rende conto che la promessa di immortalità che accompagna il morso del vampiro è una condanna, sia perché la renderebbe schiava del suo stesso incantesimo sia perché la snaturerebbe irrimediabilmente, rendendola diversa da ciò che la sua eroina è e vuole essere. A questo punto, Amanda formula una nuova richiesta: non vuole essere aiutata a lasciare il suo narcisista maligno, preferisce iniziare a chiedergli un amore che la renda forse meno speciale, ma che sia fatto di considerazione e di rispetto.

La storia avrà un lieto fine diverso dalle aspettative di Amanda. Lei inizia a fare proposte del tipo: “invece di portarmi nel ristorante stellato, vieni a cena da me e poi dormiamo insieme”. Il suo compagno di fronte a questo cambiamento di atteggiamento si fa più evasivo, ma stavolta, curiosamente, Amanda non sente l’impulso irresistibile di inseguirlo. La relazione si sfilaccia, lei tollera un periodo di silenzio e poco tempo dopo conosce un altro uomo. Quando il suo compagno precedente torna a cercarla per professarle tutto il suo amore, Amanda è fortemente tentata, ma al primo incontro si accorge che tutto sommato sta meglio col suo nuovo compagno.

Alla fine della terapia, Amanda crede ancora nella sua teoria dei narcisisti vampiri, ma non si preoccupa più di non cadere nelle loro fauci, e soprattutto non è più convinta di essere sfortunata in amore perché dopotutto, con qualche accorgimento, anche un vampiro può essere un ottimo compagno, purché le voglia bene e ricordi di essere un gentiluomo.

Per Approfondimenti

Per cominciare, ecco alcuni dei numerosissimi riferimenti online sulle varie teorie dei vampiri emotivi, dei narcisisti maligni e delle vittime empatiche:

Per chi fosse interessato ad una comprensione dei tre volti del compagno di Amanda: persecutore, salvatore e vittima, essi corrispondono al cosiddetto “triangolo drammatico”, inizialmente identificato dallo psicoterapeuta transazionale Stephen Karpman (1968). Il ruolo di queste tre versioni inconciliabili dell’altro e della relazione nelle sequele dell’attaccamento disorganizzato è stato ampiamente trattato da Giovanni Liotti (qui sotto si riportano alcuni dei principali riferimenti bibliografici):

  • Karpman, S. (1968): “Fairy tales and script drama analysis”. Transactional Analysis Bulletin, 7: 39-43;
  • Liotti, G. (1999): “Disorganized attachment as a model for the understanding of dissociative psychopathology”. In: J. Solomon & C. George (eds.), Attachment Disorganization. New York: Guilford Press (pp. 291-317);
  • Liotti, G. (2004): “Trauma, Dissociation, and Disorganized Attachment: Three Strands of a Single Braid”. Psychotherapy: Theory, research, practice, training; Vol. 41, pp. 472-486, 2004;
  • Liotti, G. Farina, B. (2011): “Sviluppi traumatici”. Raffaello Cortina.

Per comprendere la logica terapeutica che sottende alla riformulazione della richiesta di Amanda, in cui anziché confermare la sua visione negativa delle relazioni la si aiuta a mettere in luce il proprio “piano di guarigione inconsapevole”, può essere utile un’introduzione alla Control Mastery Theory di Joseph Weiss e Harold Sampson:

  • Weiss, J. (1999): “come funziona la terapia”. Bollati Boringhieri.

Una descrizione della personalità narcisistica godibilissima e assai meno “unidimensionale” di quella offerta dai teorici del narcisista-vampiro la si può trovare in un recente libro di Giancarlo Dimaggio:

  • Dimaggio, G. (2016) “L’illusione del narcisista”. Baldini & Castoldi.

Infine, per donne che vogliono provare a convivere coi propri narcisi, ecco un prontuario di facile accesso offerto dalla Prof. Umberta Telfner:

  • Telfner, U. (2006): “ho sposato un narciso”. Castelvecchi.

“Se ti parlo, non mi ascolti!”

di Giuseppe Grossi

L’importanza di un’interazione comunicativa tra genitori e figli basata sull’empatia, sul rispetto e sull’espressione libera dei sentimenti e dei bisogni

È ormai sempre più diffusa, grazie al lavoro di molti autori tra cui Angela Barlotti, l’idea che la comunicazione tra genitori e figli debba basarsi sul rispetto reciproco e sull’empatia al fine di aiutare i più piccoli a vivere ed esprimere liberamente i propri sentimenti e bisogni. Nonostante questo, molti ancora oggi pensano che sia importante insegnare ai propri bambini a parlare educatamente, a stare zitti se non interpellati, ad utilizzare i giusti vocaboli nei modi giusti e con la pronuncia giusta. In questi casi, l’adulto istaura con il bambino un rapporto basato sulla gerarchia, in cui il figlio è subordinato al genitore (“Io so io cosa è meglio per te”, “Comando io non tu”, “Come fai a non capire?”, “Vuoi fare sempre di testa tua”, “Chi sei per dire queste cose?”, “Quando sarai a casa tua farai come vuoi”).

Tale stile comunicativo muove il bambino a domandarsi spesso se c’è qualcosa di sbagliato in lui, nei sentimenti e nei bisogni che sta provando e sperimentando, fino a spingerlo sempre più lontano da quello che accade dentro di sé. In questi casi spesso utilizziamo non solo delle parole ma anche una comunicazione non verbale che spinge il bambino a sentirsi umiliato, maltrattato. Urlare, ignorare, punire al fine di dirigere e controllare un bambino rispetto ai nostri bisogni, sentimenti e aspettative, quasi fosse un oggetto, trasmette al bambino stesso una sfiducia propria dell’adulto. “Quante volte ci capita di ripetere ai nostri figli, in maniera del tutto automatica, senza alcun filtro o consapevolezza, le espressioni di rimprovero dette dai nostri genitori, che tanto ci hanno ferito e abbiamo odiato?”, scrive Alessandra Bortolotti nel suo libro “E se poi prende il vizio”. Rivivere quelle esperienze nel figlio e con lui, in molti casi non è sufficiente a trasmettere sia la forza ma anche la lucidità necessaria per domandarsi come queste siano state vissute e cosa avrebbe desiderato il genitore-bambino. È importante, quindi, capire e sentirsi sostenuti nell’idea che comunicare con i propri figli in maniera efficace è possibile fin dai primi istanti di vita, anche se questo a volte contrasta con il modo in cui noi stessi siamo stati educati o con quello che altri intorno a noi usano per educare i propri figli. Nella struttura comunicativa spesso ereditata dai nostri genitori, basata sul potere, come quella tipica dello stile comunicativo “complementare”, i conflitti portano a stabilire chi ha ragione e chi ha torto decretando vincitori e vinti. Tale stile comunicativo è tipico di modelli educativi che trasmettono valori come la disciplina, l’obbedienza all’autorità, il dare ordini e il limitare l’iniziativa e l’espressione personale di chi è subordinato. Ciò avviene quando il genitore vince e il figlio perde, ma in alcuni casi accade il contrario con risvolti non sempre piacevoli. Fortunatamente abbiamo un’alternativa. Oltre ad uno stile comunicativo complementare, abbiamo un metodo comunicativo definito “metodo senza perdenti”, in cui non esistono vincitori e vinti ma genitori e figli esprimono rispettivamente i propri bisogni e sentimenti, trovando soluzioni per arrivare a compromessi che stiano bene a entrambe le parti, comunicano accettazione e rispetto reciproco. L’unico valore trasmesso è quello della persona in quanto tale portatrice dei sui sentimenti, emozioni, idee e bisogni. Tale approccio aiuta i propri figli a sviluppare e promuovere lo sviluppo del potenziale creativo ed espressivo.
Dagli studi della dottoressa Angela Barlotti emerge che comprendere l’importanza di un’interazione comunicativa fra genitori e figli basata sull’empatia, sul rispetto e sull’espressione libera dei sentimenti e dei bisogni rappresenta un elemento di cruciale importanza non solo per la vita di ogni individuo ma anche per crescita sociale e la costruzione di una società libera.

“Ho perso una persona cara, come mi sento?”

di Emanuela Pidri

Psicoterapia del lutto come trauma che comporta psicopatologia

Nei decenni successivi a Freud, è stato osservato come il lutto presenti delle fasi fisiologiche In tutte le persone. Bowlby ne ha identificato quattro: fase di disperazione acuta, caratterizzata da stordimento e protesta; fase d’intenso desiderio e di ricerca della persona deceduta; fase di disorganizzazione e di disperazione, nella quale la realtà della perdita comincia a essere accettata; fase di riorganizzazione, durante la quale gli aspetti acuti del dolore cominciano a ridursi e la persona ritorna alla vita. Le ricerche di Bowlby hanno permesso di rilevare come molte persone rimangano bloccate in un lutto per anni, sviluppando disturbi psicologici. Non è assolutamente facile predire quali lutti saranno complicati e quali no. I fattori predisponenti possono essere: caratteristiche del soggetto (sesso, attaccamento insicuro, traumi infantili come abusi o abbandoni, storia di depressione o di altri disturbi psichiatrici); scarsa resilienza e mancanza di supporto sociale; relazione col defunto (rapporto molto stretto o dipendenza emotiva, assistenza al defunto prima della morte); circostanze della morte (improvvise, inattese, violente, premature o dovute a suicidio/omicidio o a seguito di malattie protratte, complicate, sofferte); conseguenze della morte (venir meno di un sostentamento economico, problematiche testamentarie). Prima di poter parlare di lutto complicato o patologico, dovrebbero essere trascorsi almeno sei mesi, se non un anno, dalla morte della persona cara, sperimentando: nostalgia del defunto e sofferenza nel desiderio insoddisfatto di rivederlo; sconcerto, turbamento o sgomento; amarezza o rabbia al pensiero della perdita; insensibilità emotiva; sensazione che la propria vita sia ormai priva di significato; incapacità di fidarsi degli altri; difficoltà a riprendere la propria vita; incertezza sul proprio ruolo nella vita o ridotta percezione della propria soggettività. Le persone affette da lutto complicato, tendono a ripetersi spesso pensieri negativi (“non ce la faccio più”, “se mi sento così è perché ho un problema”) e rimuginano a lungo sulle cause della morte o sulla ricerca di un modo nel quale avrebbero potuto evitarla. Al contrario, chi evita di pensare al dolore che sta vivendo può, come per altri traumi, sperimentare: intrusioni che nel disturbo da stress post traumatico (PTSD) si riferiscono al trauma, mentre nel lutto complicato sono essenzialmente ricordi legati alla persona scomparsa, che si presentano alla mente in maniera improvvisa, provocando reazioni di paura; senso di impotenza; evitamento che riguarda situazioni e luoghi ritenuti pericolosi per il PTSD, forti sentimenti di perdita della persona cara per il lutto complicato. Come per il trattamento del PTSD, la terapia cognitiva comportamentale del lutto complicato, prevede la progressiva esposizione a ricordi legati alla persona cara nell’ottica di trasformarli in una risorsa anziché in un carico doloroso da portare. Essa, inoltre, ha l’obiettivo di ristrutturare le convinzioni patogene circa la morte e la propria capacità di affrontarla, comprendere e ridurre emozioni inespresse avvertite come molto forti (rabbia, colpa, impotenza, disperazione, vuoto, inadeguatezza), aiutare le persone a riattivarsi dal punto di vista comportamentale. Il terapeuta dovrà: non relativizzare la perdita con affermazioni del tipo “andrà tutto bene, so come ti senti ” ma riconoscere e accettare il sentimento di inconsolabilità; dare alla persona lo spazio per poter manifestare i propri bisogni, pensieri ed emozioni; offrire assistenza pratica ma lasciare che la persona decida da sé, aumentando il senso di autoefficacia. Aiutare una persona in lutto può essere molto faticoso e spesso si corre il rischio di diventare insofferenti o rabbiosi verso la persona che continua a soffrire. Fondamentale è la consapevolezza e accettazione che la morte è l’unico aspetto della vita che accomuna tutti gli uomini, a cui nessuno può fuggire.

Per approfondimenti:

Bonanno GA, Neria Y, Mancini A, Coifman KG, Litz B, Insel B. Is there more to complicated grief than depression and posttraumaticstress disorder? A test of incremental validity. J Abnorm Psychol 2007; 116: 342-51.
Bowlby J. Costruzione e rottura dei legami affettivi. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1982.
Freud S. Trauer und Melancholie. Tr. it. “Lutto e Melanconia”, 1915. In: Opere. Vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri, 1989.
Lombardo L, Lai C, Morelli E, Bellizzi F, Ciccolini M, Penco I. Rischio di lutto complicato in familiari di pazienti oncologici in fase terminale: uno studio di screening. Rivista Italiana di Cure Palliative 2007; 4: 28-34.

Mancini AD, Bonanno GA. The persistence of attachment: complicated grief, threat, and reaction times to the deceased’s name. J Affect Disord 2012; 139: 256-63.

Onofrio A.,  La Rosa C. Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR. Roma: Edizioni Giovanni Fioriti Editore, 2015.

La gentilezza può ridurre l’ansia sociale

di Cristina Salvatori

L’importanza di impegnarsi in comportamenti gentili per ridurre gli evitamenti e i livelli di ansia sociale

Chi soffre di ansia sociale teme fortemente di poter ricevere giudizi negativi dagli altri e, proprio in virtù di questo, mette in atto comportamenti “protettivi” (per esempio di evitamento delle situazioni sociali) che compromettono però le sue interazioni. L’evitamento, infatti, è associato alla sperimentazione di emozioni negative, a una maggiore reattività agli eventi negativi, alla solitudine, all’insicurezza, alla scarsa soddisfazione nelle relazioni e a una minore percezione di popolarità. Una strategia che è risultata utile a ridurre l’evitamento sociale è quella di impegnarsi in gesti gentili. L’utilizzo della gentilezza è stato inizialmente inserito negli interventi volti a incrementare il benessere e la sperimentazione di emozioni positive. La spinta prosociale presente negli atti di gentilezza permette di focalizzare l’attenzione, durante l’interazione con l’altro, più che sul raggiungimento di propri stati positivi sul raggiungimento di stati positivi nell’altro. Questo potrebbe aiutare a stringere relazioni e ad aumentare il coinvolgimento in situazioni sociali. In aggiunta, promuovendo stati positivi negli altri, gli atti di gentilezza possono aumentare la probabilità di interazioni positive, aiutando a contrastare il rifiuto sociale, la percezione di minaccia e riducendo il bisogno di evitamento. La percezione della minaccia sociale, infatti, determina uno stato emotivo che induce a incrementare gli evitamenti; se gli individui sperimentano una minore ansia nelle situazioni sociali, invece, avranno meno bisogno di evitare. Considerando poi che difficilmente gli atti di gentilezza promuovono una risposta negativa da parte degli altri, questo può produrre una percezione maggiormente positiva del contesto sociale.
In uno studio del 2015, Trew e Alden hanno testato l’ipotesi secondo la quale impegnarsi in atti di gentilezza diminuisce i comportamenti di evitamento sociale in soggetti con ansia sociale. Hanno valutato, inoltre, se questo effetto è mediato da una riduzione d’ansia sociale e da un aumento di emozioni positive. All’interno di questo studio il campione è stato sottoposto, in modo randomizzato, a tre diverse condizioni sperimentali per la durata di quattro settimane. Al primo gruppo (gruppo A, 38 soggetti) è stato richiesto di compiere atti di gentilezza; al secondo gruppo (gruppo B, 41 soggetti) è stato richiesto di seguire un programma di esposizione classico; al terzo gruppo (gruppo C, 36 soggetti), in condizione naturale è stato richiesto semplicemente di registrare un diario con gli eventi di vita. Nella prima condizione gli atti di gentilezza sono stati definiti come atti che creano un beneficio agli altri o che rendono gli altri felici, generalmente con un costo per l’individuo, ed è stato richiesto ai partecipanti di impegnarsi in tre atti di gentilezza quotidiano per due giorni a settimana. Esempi di comportamenti gentili sono stati: lavare i piatti dei coinquilini, tagliare il prato del vicino, fare la carità. Al gruppo impegnato nell’esposizione è stato richiesto il coinvolgimento in situazioni sociali generalmente evitate per tre volte al giorno, due volte a settimana, iniziando con le situazioni che generano minore ansia e aumentando gradualmente di intensità. Esempi di esposizione sono stati: chiedere l’ora a uno sconosciuto, parlare con un vicino, invitare qualcuno a pranzare insieme; è stato richiesto di praticare la respirazione profonda prima di entrare in contatto con la situazione temuta. Ai partecipanti del terzo gruppo, il gruppo di controllo, è stato richiesto di registrare tre volte al giorno, due volte a settimana un evento della propria quotidianità al fine di aumentare la propria consapevolezza.
I risultati hanno mostrato che il “gruppo A” ha ottenuto una riduzione dei comportamenti di evitamento sociale al pari del “gruppo B”, mostrando, rispetto a quest’ultimo un maggiore decremento iniziale degli evitamenti. Questo effetto è apparso mediato totalmente da una diminuzione dei livelli di ansia sociale mentre non sono apparsi risultati significativi per quanto riguarda la sperimentazione di emozioni positive. Questi risultati hanno quindi supportato precedenti ricerche che sostenevano l’importanza di impegnarsi in atti gentili per ridurre gli evitamenti e i livelli di ansia sociale in modo più rapido rispetto alla sola esposizione. L’iniziale decremento può essere spiegato dal fatto che la natura prosociale della gentilezza può rendere più semplice impegnarsi nell’esposizione a situazioni temute, in quanto l’immaginarsi una reazione positiva da parte degli altri può rendere la situazione meno minacciosa. Ciò può indurre un maggiore coinvolgimento e quindi conseguentemente una maggiore riduzione degli evitamenti.

Per approfondimenti:

Jennifer L. Trew, Lynn E. Alden (2015). Kindness reduces avoidance goals in socially anxious individuals. Motiv Emot, DOI 10.1007/s11031-015-9499-5