Che sesso sei… e ti dirò che disturbo mentale avrai

Predisposizione alla psicopatologia in base al genere

di Sonia Di Munno
curato da Barbara Basile

Diversi studi epidemiologici hanno mostrato che uomini e donne si differenziano nello sviluppo di specifici disturbi mentali. Mentre le donne sono più soggette allo sviluppo di psicopatologie di tipo “internalizzante”, come la depressione, l’ansia, la distimia, la fobia sociale, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacco di panico e la fobia specifica, gli uomini hanno maggiore rischio di sviluppare disturbi “esternalizzanti”, tra i quali il disturbo di personalità antisociale e la dipendenza da alcol e droghe. Quello che differenzia i due tipi di problematiche riguarda le modalità di attribuzione di causalità di eventi negativi: mentre nei disturbi internalizzanti l’individuo si ritiene di esserne la causa, nei problemi esternalizzanti le cause di tali eventi si attribuiscono agli altri o a fattori esterni.

I motivi della diversa distribuzione dei disturbi psichici non sono ancora noti, ma si ipotizza che alcuni di questi dipendano dalle diverse modalità di interpretazione degli eventi, dalle differenti strategie di fronteggiamento e da differenze biologiche, genetiche, sociali e demografiche.

Recentemente alcuni studiosi hanno cercato di capire se sia possibile spiegare e prevedere tramite un apposito modello queste differenze. Dalle ricerche è emerso che non è il genere specifico a predisporre tout court allo sviluppo di un certo disturbo, ma sarebbe la latente propensione a internalizzare o esternalizzare i problemi che rappresenta, invece, un fattore di rischio più importante. Ovvero, le donne prediligono un ragionamento che tende all’internalizzazione, mentre gli uomini utilizzano più modalità di pensiero esternalizzanti. Leggi tutto “Che sesso sei… e ti dirò che disturbo mentale avrai”

I disturbi di personalità: quale trattamento possibile?

di Massimo Claudio Bachetti
curato da Elena Bilotta

Un recente articolo di Bateman e coll. cerca di far luce su un problema di non facile soluzione, ovvero, il trattamento dei disturbi di personalità (DdP). Il numero di studi di esito su questo tema è scarso e riguarda principalmente il disturbo borderline di personalità e altri DdP afferenti al cluster B.

Come è noto, i DdP riconosciuti dall’attuale sistema nosografico, il DSM 5, sono divisi in tre cluster: A, B e C. La cosa interessante che gli autori ci pongono di fronte è come questa classificazione rappresenti anche una sorta di divisione che rappresenta il livello di difficoltà clinica che, come terapeuti, si incontria.. Si parte dal cluster C (evitante, dipendente, ossessivo), che è quello il cui trattamento ha le maggior probabilità di ottenere buoni risultati, per passare al B (borderline, istrionico, narcisistico, antisociale), dove questi risultati sono drasticamente ridotti, fino ad arrivare al cluster A (paranoide, schizoide, schizotipico), dove le probabilità di riuscita sono estremamente limitate e dove la letteratura è quasi assente. Gli autori passano in rassegna i vari cluster e i singoli disturbi delineandone i caratteri generali e i vari tipi di approccio terapeutico. L’approccio terapeutico che dalla letteratura, per la maggior parte basata su studi longitudinali comparativi, risulta ottenere i migliori risultati è la terapia cognitiva-comportamentale. In aggiunta alla terapia psicologica è discussa la appropriatezza di una terapia farmacologica che risulta essere attualmente molto dibattuta tra i vari comitati scientifici internazionali. Ultimo, ma non per importanza, rientra anche l’intervento socio-ambientale che non viene descritto nello specifico, ma che riveste sicuramente un ruolo fondamentale in particolare in alcuni tipologie di cluster. Leggi tutto “I disturbi di personalità: quale trattamento possibile?”

Come la mindfulness migliora le abilità cognitive: una review sistematica delle ricerche in ambito neuropsicologico.

di Lorenzo Cruciani
curato da Alberto Chiesa

Le pratiche di meditazione basate sulla mindfulness (MMPs) sono un sottogruppo di pratiche meditative basate su una modalità particolare di prestare attenzione al presente, in maniera non giudicante. Il concetto di mindfulness trova le sue radici nella filosofia buddista ed è un elemento chiave in alcuni stili di meditazione. Nelle ultime decadi il training mindfulness è stato incorporato in svariati programmi clinicamente orientati, come ad esempio la Mindifulness Based Stress Reduction (Kabat-Zinn, 1990), la Mindfulness Based Cognitive Therapy (Segal, Williams & Teasdale, 2002), la Dialectical Behavior Therapy (Linhean, 1993) e l’Acceptance e Commitment Therapy (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999). Il crescente interesse verso queste pratiche ha fatto in modo che gli studi sugli effetti benefici della mindfulness (diminuzione della sintomatologia ansiosa, depressiva o del consumo di alcol ad esempio) aumentassero; nonostante ciò risultano relativamente esigue le ricerche che indagano i correlati neuropsicologici di tali pratiche. In risposta a questo problema il gruppo di Chiesa ha effettuato una review della bibliografia, analizzando 4515 studi, indicizzati nei principali databases, selezionandone in tutto 23, che presentavano specifiche caratteristiche metodologiche e un elevato rigore scientifico. Il primo obbiettivo degli studiosi è stato quello di fornire una definizione scientifica e psicologicamente orientata del costrutto di mindfulness, enfatizzandone le due caratteristiche principali: la focalizzazione sull’esperienza interna ed esterna, nel qui ed ora e l’attitudine non giudicante e aperta. Le funzioni cognitive esaminate includono le sottocomponenti dell’attenzione, della memoria e delle funzioni esecutive. Leggi tutto “Come la mindfulness migliora le abilità cognitive: una review sistematica delle ricerche in ambito neuropsicologico.”

Contaminazione mentale nel dirty kiss: tradimento o contatto fisico immaginario?

di Paola Cerratti
curato da Annalisa Bello

Nell’ambito del DOC, diversi studi hanno indagato il fenomeno della contaminazione mentale (CM), ovvero la sensazione di essere stati contaminati, in assenza di contatto fisico, in seguito alla violazione dei propri standard morali o di fronte ad eventi percepiti come inaccettabili. La ricerca ha utilizzato un paradigma denominato dirty kiss, uno scenario immaginario di un bacio non consensuale. In tali studi è stato posto in rilievo il tradimento inteso come violazione morale, ma visto che la procedura prevede anche il contatto fisico immaginario, è necessario distinguere il ruolo dei due fattori nella genesi della CM. Elliot et al. (2009; 2012) hanno manipolato gli elementi del tradimento e dell’aspetto fisico del soggetto che dava il bacio, rilevando che la CM era maggiormente elicitata nel caso in cui era presente il tradimento o in cui l’uomo, che dava il bacio non consensuale, era sporco. Inoltre, hanno notato che, aumentando la percezione di CM, aumentava anche la compulsione a lavarsi. Millar et al. (2015) hanno cercato di scindere il ruolo del tradimento da quello del contatto fisico confrontando l’immaginazione di un bacio non consensuale con quella di un furto  compiuti da una persona di fiducia o da un estraneo in 80 donne tra studentesse e impiegate universitarie con età compresa tra i 18 e i 43 anni (età media = 21,56 anni), ed hanno poi esaminato i sentimenti di tradimento sulla sensazione di CM, in particolar modo sulla sensazione di sporco e il desiderio di lavarsi. Hanno ipotizzato che l’elemento importante negli esperimenti del dirty kiss sia l’immaginazione di baciare piuttosto che il tradimento. Leggi tutto “Contaminazione mentale nel dirty kiss: tradimento o contatto fisico immaginario?”

Il ruolo dell'alessitimia nella relazione tra maltrattamento infantile e disturbi internalizzanti

di Amabile Azzarà
curato da Elena Bilotta

 L’alessitimia può essere definita come la difficoltà a riconoscere e verbalizzare i propri stati emotivi, e a distinguerli dalle sensazioni corporee. In letteratura, diversi studi mostrano come l’alessitimia sia associata all’aver subito maltrattamenti durante l’infanzia (i.e., abuso fisico, emotivo e sessuale, neglect) e alla manifestazioni di disturbi internalizzanti come depressione e ansia.

Uno studio recente si è occupato di questo tema delicato con lo scopo di valutare se l’esposizione al maltrattamento infantile fosse associato positivamente ai sintomi di depressione, ansia e senso di solitudine e se l’alessitimia spiegasse le associazioni tra le diverse tipologie di maltrattamento e tali sintomi.

Hanno partecipato allo studio 339 studenti di un’Università Statunitense, di un’età compresa tra i 18 e i 25 anni ed appartenenti a diverse etnie. Dopo aver ottenuto il consenso informato, i partecipanti hanno risposto in forma anonima a un sondaggio online della durata di circa un’ora. Gli strumenti utilizzati sono stati: la Toronto Alexithymia Scale per valutare l’alessitimia, The Short Mood and Feelings Questionnaire, The General Anxiety Disorder Scale e la UCLA Loneliness Scale per valutare invece le problematiche internalizzanti. Il maltrattamento infantile è stato valutato come ultimo attraverso il Childhood Trauma Questionnaire, al fine di ridurre gli effetti di un’attivazione emotiva relativa al ripercorrere una eventuale storia di maltrattamento sulle risposte agli altri questionari.

Dallo studio è emerso che l’esposizione a tutte le forme di maltrattamento infantile è associata a sintomi di depressione, ansia e senso di solitudine, confermando quindi i precedenti dati presenti in letteratura, e sottolineando anche la valenza degli effetti negativi del maltrattamento infantile sui disturbi internalizzanti. A tale proposito, è opportuno evidenziare come l’attaccamento possa giocare un ruolo importante all’interno di questo fenomeno: gli ambienti familiari trascuranti potrebbero favorire modelli di attaccamento insicuro e nel corso del tempo, non rinforzare o modellare adeguate strategie di coping e l’espressività emotiva, aumentando pertanto il disagio psicologico e i problemi internalizzanti. È emerso poi che trascuratezza fisica ed emotiva e abuso emotivo sono positivamente associati all’alessitimia, confermando quindi la tesi secondo la quale l’esposizione al maltrattamento infantile potrebbe provocare un deficit nel processamento affettivo e contribuire allo sviluppo dell’alessitimia, ovvero dalla difficoltà a elaborare una consapevolezza emotiva. Tuttavia, nello studio, solo la trascuratezza emotiva risulta univocamente associata all’alessitimia.

In sintesi, i risultati dello studio suggeriscono che la trascuratezza (o neglect) emotiva sarebbe la tipologia più significativa di maltrattamento infantile associata all’alessitimia. Pertanto, si ipotizza che proprio la trascuratezza emotiva potrebbe essere il fattore chiave per la prevenzione dell’alessitimia stessa.

All’interno della pratica clinica, gli autori evidenziano l’importanza della valutazione dell’alessitimia per tutti coloro i quali presentano un disturbo internalizzante, perché ciò potrebbe essere un ottimo outcome di efficacia al trattamento psicoterapico di tipo cognitivo-comportamentale. Si suggerisce inoltre di effettuare un iniziale percorso di psicoeducazione emotiva, con la finalità di permettere al paziente di imparare a leggere e riconoscere le emozioni a partire da se stessi, per poi generalizzarle al contesto interpersonale.

 

Bibliografia:

Brown S., Fite P.J., Stone K. & Bortolato M. (2016). Accounting for the associations between child maltreatment and internalizing problems: the role of alexithymia. Child Abuse & Neglect, 52, 20–28.

Maltrattamento infantile e comportamenti sessuali a rischio: il ruolo dell’Alessitimia

di Francesca Castellano
curato da Elena Bilotta

Nel 2011 l’American College Association ha rilevato che sul 70% degli studenti sessualmente attivi, il 50% ha comportamenti sessuali a rischio, con i problemi che ne conseguono, come gravidanze indesiderate e malattie veneree.

Diversi studi hanno dimostrato che il 50% di giovani con una storia di abusi infantili sono malati di HIV, spesso diretta conseguenza dei suddetti comportamenti a rischio. Questi ultimi sono, a loro volta,  strettamente correlati all’uso di alcol, che spesso precede la messa in atto di tali condotte, poiché porta ad una disinibizione e ad una percezione di vicinanza con l’altro, avendo l’illusione momentanea di superare le difficoltà interpersonali. Queste difficoltà verrebbero spiegate con la ridotta capacità, da parte di questi individui, di identificare e descrivere le proprie emozioni, così come di riconoscere quelle degli altri: l’alessitimia.

Hahn e collaboratori hanno provato a fare luce su questo fenomeno, focalizzandosi sul ruolo che l’alessitimia ha nella relazione tra maltrattamenti infantili e comportamenti sessuali a rischio in età adulta. Nello studio condotto su un campione di 425 studenti sessualmente attivi, il 72% riferiva di aver avuto rapporti non protetti e il 75% riportava di consumare alcol durante la settimana. Da una parte, l’uso di alcol risultava correlato con l’alessitimia, impulsi negativi e comportamenti sessuali a rischio. Leggi tutto “Maltrattamento infantile e comportamenti sessuali a rischio: il ruolo dell’Alessitimia”

Pensare positivo aiuta a vivere meglio: verità o leggenda?

di Sonia Di Munno
curato da Elena Bilotta

Le eccessive, persistenti e pervasive preoccupazioni sul futuro, sono il principale sintomo dei disturbi d’ansia e, in maniera particolare, del Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD). Chi ne soffre riporta anche diversi sintomi come la difficoltà di concentrazione, irritabilità, tensione muscolare ecc. Il tutto inficia sulla qualità della vita. Nel GAD, è molto alto il rimuginio inteso come forma di pensiero ciclico, negativo e ricorrente; esso consiste nel rimanere intrappolati nel proprio pensiero negativo immaginando continuamente situazioni negative che potrebbero accadere in futuro.

Molti autori hanno riscontrato che le persone con un eccessivo rimuginio, ricorrono più ad una preoccupazione di tipo verbale (discorso mentale) al fine di evitare delle immagini mentali angoscianti e, anche se questo sortisce un effetto di rassicurazione e diminuzione dell’ansia nel breve tempo, nel lungo termine genera immagini e pensieri più intrusivi e resistenti rispetto al pensare solo per immagini. A sostegno di tale tesi, alcuni autori hanno trovato che in un gruppo di alti rimuginatori a cui era stato dato il compito di preoccuparsi usando forme verbali, erano aumentati i rimuginii rispetto ad un altro gruppo a cui era stato detto di preoccuparsi pensando per immagini. Tutto ciò sembra fornire l’idea che il pensiero verbale sia la chiave per far aumentare la preoccupazione o ansia patologica. Leggi tutto “Pensare positivo aiuta a vivere meglio: verità o leggenda?”

Esite una forma adattiva di ruminazione?

di Silvia Altomare

Martin e Tesser (1989, 1996) definiscono la ruminazione come un insieme di pensieri ripetitivi che si attivano in assenza di un’immediata risposta ambientale, riguardanti un tema inerente obiettivi personali irrisolti. La letteratura ha dipinto la ruminazione come una forma di pensiero sgradevole, costosa, inutile, e talvolta auto-distruttiva; inizia per cercare una soluzione a un problema, ma poi si sposta sulla valutazione dei significati del problema (Watkins, 2016). Di fatto, evidenze empiriche hanno associato la ruminazione a esiti avversi, soprattutto per le persone con disturbo depressivo, disforico e ansioso, e a conseguenze negative sulle proprie capacità cognitive e interpersonali.

Recentemente, Mikulincer (1996) ha identificato tre categorie di ruminazione: l’action rumination orientata sul compito, focalizzata su come raggiungere l’obiettivo e come migliorare o recuperare errori passati; la state rumination focalizzata su sentimenti attuali e su implicazioni del fallimento; la task-irrelevant rumination può servire a distrarre la persona dal fallimento, pensando a eventi o persone estranee all’obiettivo bloccato. Secondo Ciarocco e collaboratori (2010) la state rumination sarebbe disadattiva, mentre l’action rumination sarebbe adattiva perché simile ai processi di problem-solving e dovrebbe associarsi ad esiti positivi, come una migliore prestazione (Ciarocco et al., 2010). Per testare questa ipotesi, gli autori hanno sviluppato una serie di esperimenti in cui, a seguito di un compito di creatività (Torrance Test of Creative Thinking) veniva dato un feedback di fallimento del tipo “La tua prestazione è stata scarsa”. Leggi tutto “Esite una forma adattiva di ruminazione?”

La mindfulness è una strategia di regolazione emotiva top down o bottom up?

di Graziella Pisano

La regolazione emotiva è un elemento importante per la  salute mentale ed un funzionamento adattivo, infatti un deficit di regolazione emotiva può essere riscontrato in molti disturbi psichiatrici. La mindfulness rappresenta una strategia di regolazione emotiva; diversi studi supportano la teoria secondo cui essa sarebbe un elemento che concorre alla rivalutazione cognitiva ( processo top down), mentre altri studi suffragano l’ipotesi secondo  cui la mindfulness sarebbe invece una strategia di regolazione emotiva a sé stante, indipendente dalla rivalutazione cognitiva (processo bottom up). La concezione di mindfulness come processo bottom up evidenzia che quando il soggetto presta attenzione alle esperienze presenti con attitudine non giudicante si manifesterebbe una riduzione dell’attivazione limbica in risposta a stimoli emotivamente salienti, senza l’attivazione concomitante della corteccia prefrontale. La review di Chiesa A. e coll. (2013)  prende in esame cinque studi che rivelano che un mindfulness training può essere correlato ad una minore reattività emozionale agli stimoli derivante da una strategia di regolazione emotiva non meditata dall’ aumento della regolazione top down da parte delle aree prefrontali sull’area limbica, come lo striato e l’amigdala. La seconda concezione (top down) considera la mindfulness come una strategia di regolazione emotiva che facilita la rivalutazione cognitiva; l’attivazione della corteccia prefrontale potrebbe, dunque, modulare l’attivazione limbica. Leggi tutto “La mindfulness è una strategia di regolazione emotiva top down o bottom up?”