Autostima e regolazione delle emozioni nel Disturbo Narcisistico di Personalità: implicazioni per il trattamento

di Aleandra Rocci
curato da Elena Bilotta

In un recente articolo scritto da Elsa Ronningstam, psicoanalista statunitense esperta di diagnosi e trattamento del disturbo narcisistico di personalità, vengono proposte e discusse strategie e interventi che servono a proteggere, mantenere e a far progredire il processo terapeutico col paziente narcisista, fino all’obiettivo di miglioramento del funzionamento della personalità e di cambiamento. Secondo l’autrice, nella costruzione dell’alleanza terapeutica è importante identificare le basi dell’autoregolazione narcisistica del paziente, ovvero le specifiche fluttuazioni dell’autostima e delle emozioni, in quanto aspetti interdipendenti nel funzionamento narcisistico. Il funzionamento del paziente può influenzare la regolazione delle emozioni e dell’autostima e viceversa. Questo a sua volta influenza le relazioni interpersonali, gli eventi della vita del paziente e specialmente la fase di costruzione dell’alleanza terapeutica e il trattamento. Il terapeuta incoraggia e aiuta il paziente ad identificare i propri trigger e il modo in cui vengono espressi nelle relazioni interpersonali. Questo può essere di particolare aiuto sia per il paziente, e cioè per avvicinarlo agli aspetti più critici del suo funzionamento, sia  risultare informativo per il terapeuta sulle precedenti esperienze di attaccamento, su eventi cruciali dello sviluppo, sulla riattivazione di un trauma e sulle implicazioni che questo ha nella relazione terapeutica. La costruzione dell’alleanza terapeutica nei pazienti narcisisti può essere molto complessa, tanto da richiedere mesi e in alcuni casi essere sia un aspetto centrale del trattamento che uno degli obiettivi principali della terapia.

Nell’articolo l’autrice evidenzia sei strategie terapeutiche utili per la costruzione dell’alleanza.

Attraverso un approccio generalmente esplorativo e collaborativo in primo luogo è necessario identificare e raggiungere un accordo sul problema che il paziente intende affrontare. Questo punto di partenza è molto importante per far sì che il paziente trovi il coraggio e la motivazione ad affrontare il problema.

In secondo luogo, l’attenzione iniziale può essere focalizzata su problemi riguardanti l’autostima, fino a quando l’alleanza non sarà abbastanza solida per permettere al paziente di tollerare l’esplorazione delle emozioni.

In terzo luogo, l’atteggiamento non giudicante del terapeuta, con l’utilizzo di termini come “impegnativo”, “difficile”, “complesso”, validano il dolore dei pazienti e tendono anche a diminuire la loro reattività e le difese.

Quarto, è importante incoraggiare gradualmente la curiosità e la capacità di riflessione del paziente ponendo domande come “cosa pensi che ti faccia reagire, sentire in questo modo?”. Questo serve ad attivare la capacità riflessiva e l’autovalutazione del paziente e permette di avere descrizioni più informative delle loro difficili esperienze legate sia all’autostima che alle emozioni.

Quinto, promuovere il senso di agentività del paziente, in base alle capacità, aspirazioni e obiettivi. Questo è particolarmente importante quando il paziente è alle prese con un grave senso di inferiorità. E’ importante promuovere l’autonomia e un senso più solido di agentività personale.

Sesto, anche quando l’alleanza è solida e c’è fiducia, collaborazione, rispetto e comprensione, eventi esterni possono improvvisamente provocare resistenza nel paziente con evitamento, disinteresse, critica sprezzante. L’evitamento del paziente e il rifiuto più o meno esplicito degli interventi terapeutici può in alcuni casi indicare il riemergere di un trauma precoce. Con una solida alleanza il paziente sarà in grado di riflettere sulle proprie difese e lavorare su di esse.

La sfida nell’affrontare la vulnerabilità narcisistica costituisce parte integrante della terapia.

Bibliografia

Ronningstam E. Intersect between self-esteem and emotion regulation in narcissistic personality disorder – implications for alliance building and treatment. Biomedcentral: Borderline PersonalityDisorder and EmotionDysregulation (2017) 4:3 DOI 10.1186/s40479-017-0054-8

Ed io avrò cura di te

di Caterina Parisio

La relazione terapeutica: arte, musica e… Psicopatologia

 Nel 1887, Henry Tate commissionò a Luke Fildes, già allora pittore di fama, un quadro per la sua nuova National Gallery of British Art. La commissione non indicava un soggetto, che fu scelto dallo stesso Fildes. The Doctor ebbe un folgorante successo: il quadro è ambientato in una povera casa della campagna inglese. È l’alba e la prima luce del giorno filtra da una finestra sullo sfondo, illuminando flebilmente un bambino malato; seduto di fronte a lui il dottore. È un medico che ha trascorso lì la notte, assistendo il piccolo paziente, impotente. La madre, affranta, è china sul tavolo; il padre le poggia una mano sulla spalla per confortarla e guarda il medico con rispetto e gratitudine. Non sappiamo se il bambino si salverà ma sappiamo per certo che il dottore ha fatto il possibile.

Qual è il segreto del quadro di Fildes? Perché, tra i tanti dipinti su medici e medicina, questo sembra essere in assoluto il più amato? Il segreto sta nel fatto che The Doctor è l’icona della relazione tra medico e paziente, nella sua forma idealizzata. Il dottore, il bambino malato, i genitori affranti: il legame che li tiene insieme è la cura.

Non sappiamo quale fosse la malattia del bambino, sicuramente qualcosa di molto grave, presumibilmente una polmonite; non sappiamo da quanto tempo il dottore fosse in quella stanza; non conosciamo gli esiti della lunga nottata. Ora, provando a fare un salto temporale e trasponendo il concetto di relazione terapeutica alla sfera della psicopatologia, proviamo a capire quale sia la funzione che essa esercita all’interno di un percorso terapeutico.

Le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate dagli aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912) sino a Rogers (1965), che pone l’accento su come la percezione dell’empatia con l’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale; si parlerà di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione qualche anno dopo con Bordin (1979).

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha conferito una grande importanza al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali. Sul tema della relazione terapeutica, Aaron Beck raccomandava fin dai suoi primi libri sulla depressione, che “le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza”, caratteristiche che modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

“Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni e dalle tue manie”, canta Franco Battiato nel brano “La cura”: un Aaron Beck rivisitato che definisce in musica il concetto di cura e pone grande enfasi sulla relazione terapeutica.

Ma cosa succede all’interno della relazione terapeutica con il paziente grave? Gli autori che se ne sono interessati concordano tutti su due affermazioni riguardanti l’alleanza terapeutica: una buona relazione è un requisito fondamentale per l’efficacia del trattamento, ma la costruzione di una buona e stabile relazione è qualcosa di estremamente problematico.

Ciò che rende particolarmente importante la relazione, in questo tipo di trattamento, è il fatto che essa consente di influire sui livelli di funzionamento metacognitivo, in modo da rendere il paziente capace di operazioni mentali terapeutiche altrimenti cronicamente deficitarie. È evidente che questo ruolo della relazione abbia un peso minore con pazienti che non presentano significativi deficit metacognitivi. D’altra parte, proprio i deficit metacognitivi che vengono compensati dalla relazione rappresentano, allo stesso tempo, il maggior ostacolo alla costruzione della relazione stessa che, pertanto, richiede una cura tecnica del tutto particolare ed estremamente accurata.

Perché e come la relazione terapeuta-paziente è “terapeutica”? Che ruolo svolge la relazione nel determinare il miglioramento o la scomparsa della sofferenza psichica e della psicopatologia del paziente?

La relazione può influire in modi diversi e su aspetti diversi del funzionamento mentale per cui, ci si trova di fronte a sottolineature di aspetti differenti del ruolo svolto dalla relazione terapeutica. La relazione come influenza sociale positiva: essa costituirebbe il mezzo che consente al terapeuta di esercitare un’influenza positiva sul paziente affinché egli si attenga alle regole del setting e svolga i compiti concordati con il terapeuta.

La relazione terapeutica come contesto privilegiato per la presa di coscienza, oppure ancora come esperienza correttiva per l’incremento della conoscenza di sé.

Tanti altri i ruoli che la relazione terapeutica può assumere all’interno di un percorso di cura e molti i manuali che si sono occupati di ciò ma, in tale sede, concludiamo così, connotando musicalmente la caratteristica che può avere la relazione terapeutica: “ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo insieme le vie […] ed io avrò cura di te”.

Per approfondimenti:

Antonio Semerari (a cura di), 1999. Psicoterapia cognitiva del paziente grave, Raffaello Cortina Editore

La riparazione di rotture nell’alleanza terapeutica – Safran et al., 2001

di Sandra Rienzi
a cura di Maurizio Brasini

Secondo Safran e collaboratori la negoziazione delle rotture nell’alleanza è fondamentale per il processo di cambiamento. In questo articolo gli autori hanno esaminato la ricerca riguardante i processi coinvolti nella riparazione delle rotture dell’alleanza al fine di estrapolare delle linee guida dalla pratica clinica. Dalla revisione dell’evidenza empirica  è emerso che un’alleanza terapeutica forte contribuisce al buon esito del trattamento. Ciò suggerisce che riconoscere e affrontare le debolezze dell’alleanza terapeutica è di fondamentale importanza per terapie di successo. Sfortunatamente la ricerca ha dimostrato che anche psicoterapeuti esperti possono avere difficoltà nel riconoscerle. Inoltre,  la consapevolezza da parte del terapeuta di riserve e preoccupazioni del paziente può essere dannosa per l’esito della terapia. Questo perché gli psicoterapeuti potrebbero o aumentare l’aderenza al loro modello di trattamento in modo rigido, o rispondere ai sentimenti negativi dei pazienti esprimendo a loro volta i propri sentimenti negativi. Al contrario, numerosi studi hanno suggerito che quando i terapeuti sono in grado di rispondere al paziente senza mettersi sulla difensiva, partecipare in prima persona all’alleanza, adattare il proprio comportamento e affrontare le fratture quando si verificano, l’alleanza migliora.

Il programma di ricerca di Safran e collaboratori sul processo di risoluzione delle rotture li ha portati a sviluppare un modello di trattamento basato su interventi che gli autori stessi hanno reputato dei facilitatori del processo risolutivo. Il modello BRT (Brief Relational Therapy)  è definito un trattamento a breve termine e comprende principi derivati da psicoanalisi relazionale, psicoterapia esperienziale e umanistica e contemporanee teorie su cognizione ed emozione. In uno studio preliminare da essi condotto su 128 pazienti con disturbi di personalità è emersa una maggior efficacia del modello BRT rispetto ad altre due tradizionali  psicoterapie a breve termine, una psicodinamica e l’altra cognitivo-comportamentale. Sebbene all’epoca gli autori ritenessero che questo filone di ricerca fosse ancora nelle fasi iniziali, ne sono state tratte delle implicazioni considerevoli per la pratica clinica che possono essere così sintetizzate:

  1. Gli psicoterapeuti dovrebbero essere coscienti del fatto che spesso i pazienti hanno sentimenti negativi rispetto alla terapia o alla relazione terapeutica e che sono riluttanti a condividere per paura della reazione del terapeuta. E’ quindi fondamentale che i terapeuti prestino attenzione ai piccoli segnali di rottura nell’alleanza in modo da poter prendere l’iniziativa nell’esplorarli insieme al paziente.
  2. Sembra importante per i pazienti la possibilità di esprimere i sentimenti negativi riguardo la terapia allo psicoterapeuta. I pazienti dovrebbero far emergere e far valere il proprio punto di vista su ciò che è emerso nel corso della terapia quando questo differisce dal punto di vista del terapeuta.
  3. Quando ciò avviene, è importante per i terapeuti rispondere in modo aperto, senza mettersi sulla difensiva, e accettare la responsabilità per il proprio ruolo nella relazione.
  4. Ci sono alcune evidenze del fatto che il processo di esplorazione delle paure e delle aspettative del paziente, che rende loro difficile esprimere i propri sentimenti negativi rispetto al trattamento, può contribuire al processo di risoluzione delle rotture dell’alleanza.

Ridere in terapia: questione assai seria

di Caterina Parisio

Alleanza terapeutica, uso dell’ironia e capacità metacognitive

Una buona relazione terapeutica è un requisito fondamentale per l’efficacia di un trattamento, ma la costruzione di una buona e stabile relazione è qualcosa di estremamente delicato, che diventa altamente problematico se ci si riferisce a target di pazienti gravi.

Ciò che rende particolarmente importante la relazione terapeutica è il fatto che essa consenta di influire sui livelli di funzionamento metacognitivo, in modo da rendere il paziente capace di operazioni mentali terapeutiche altrimenti deficitarie o problematiche.

Dati di ricerca hanno ripetutamente dimostrato come l’alleanza terapeutica sia un potente fattore predittivo dell’esito del trattamento psicoterapeutico; essa rappresenta, infatti, il fattore terapeutico aspecifico con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento, configurandosi, così, come un nucleo concettuale e clinico di estrema rilevanza. Leggi tutto “Ridere in terapia: questione assai seria”

Alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

di Angelo Maria Saliani

Cosa fare quando anche la cura diventa oggetto di valutazioni ossessive

Instaurare una buona alleanza terapeutica con una persona affetta da disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) non è impresa semplice. Le impasse tecniche e relazionali che segnalano problemi nel legame terapeuta-paziente e un accordo insufficiente su strategie e obiettivi terapeutici possono occorrere sin dalla fase iniziale di valutazione e, a seguire, nelle fasi di implementazione e chiusura del trattamento. Gran parte di queste difficoltà possono essere viste come vere e proprie trappole in cui paziente e terapeuta cadono. Un classico esempio è quello dello stallo che nasce dal timore del giudizio morale del terapeuta: il paziente si chiude in un riserbo sul contenuto proibito delle proprie ossessioni che rende arduo giungere alla formulazione del problema. Un altro esempio è quello della “spiegazione perfetta”: il paziente si dilunga nella spiegazione minuziosa del proprio sintomo ridefinendo continuamente le formulazioni proposte dal terapeuta o, al contrario, procede in modo lento e incerto rendendo vano il tentativo di giungere a una condivisione almeno provvisoria del problema.
Come suggerito da Saliani e Mancini nel libro “La Mente Ossessiva”, è lecito concettualizzare gran parte delle trappole in cui cadono paziente e terapeuta come espressione delle stesse strutture psicologiche che determinano i sintomi propriamente detti. Vale a dire, ad esempio, che lo stesso timore di colpa deontologica che porta una persona a fare controlli ripetuti del rubinetto del gas opera anche quando a essere valutata è la psicoterapia in cui si è impegnati. Leggi tutto “Alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo”

Sulla stessa lunghezza d'onda

di Maurizio Brasini

E se una buona alleanza terapeutica consistesse in due cuori che battono all’unisono formando un’unica mente?

Quando nel lontano 1769 Franz Anton Mesmer elaborò la teoria del “magnetismo animale”, non poteva immaginare che sarebbe stato l’inconsapevole antesignano di ogni successiva teoria dell’alleanza terapeutica. Convinto che guaritore e paziente fossero entrambi attraversati da un fluido magnetico, Mesmer chiamava “rapporto” il passaggio di questo fluido. La sua idea fu ben presto accantonata per cedere il posto all’ipnosi e quindi alla psicanalisi, e da lì in poi la storia è abbastanza nota; tuttavia, è rimasta aperta la questione su quale misterioso legame unisca due persone impegnate in una relazione di cura e di quale ruolo abbia questo legame nel processo di guarigione. Un minimo comune denominatore di consenso è stato raggiunto sulla nozione che l’alleanza terapeutica sia un reciproco accordo su obiettivi, ruoli e natura della relazione stessa; eppure, se da una parte si fa sentire la tentazione di andare oltre questa scarna definizione operativa, d’altro canto sarebbe imbarazzante rischiare di inciampare ancora in spiegazioni metafisiche alla Mesmer.
Un primo passo in una direzione nuova e promettente è stato compiuto studiando la relazione tra madre e bambino nel primo anno di vita; si è scoperto che fin dalla nascita i due sono impegnati in sofisticati processi di sintonizzazione reciproca, attraverso i quali il bambino apprende a condividere stati soggettivi e significati personali con l’altro. Il secondo passo è stato accorgersi che processi analoghi continuano a regolare anche i rapporti tra adulti. Leggi tutto “Sulla stessa lunghezza d'onda”