Compulsioni: perché agirle e quando interromperle?

 

di Barbara Basile

Il contributo di Chirstine Purdon al Workshop di Experimental Psychopathology

Il 26 e 27 maggio 2017 si è tenuto a Roma il Workshop di Experimental Psychopathology, un’occasione di approfondimento e confronto sulle più recenti ricerche internazionali nell’ambito della psicopatologia. Ricercatori e professori hanno portato i loro contributi dai rispettivi Paesi di provenienza (Belgio, Canada, Israele, Gran Bretagna, Islanda, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Serbia e Svizzera), coordinati dall’Associazione di Psicologia Cognitiva e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma.

In questo articolo verrà riportato brevemente l’intervento di Chirstine Purdon, docente all’Università di Waterloo, in Canada, con i risultati di alcune ricerche finalizzate a una maggiore comprensione delle compulsioni osservabili nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). Le compulsioni indicano comportamenti ripetitivi (per esempio lavarsi le mani, mettere in ordine, controllare, etc.) o degli atti mentali (pregare, contare) che l’individuo si sente costretto a mettere in atto in risposta a un pensiero ossessivo o a delle regole rigide che “deve” rispettare. Il fine delle compulsioni (agite o mentali) sarebbe di eludere o ridurre l’ansia o lo stress, o, irrealisticamente, di prevenire che accadano eventi o situazioni temuti. Nelle sue ricerche, la Purdon si è concentrata soprattutto su quest’ultimo aspetto, cioè: quali sono gli scopi sottesi alle compulsioni? E ancora: quali sono le regole di “stop” che fanno sì che l’individuo interrompa le compulsioni?

In quattro studi che hanno coinvolto pazienti con DOC, considerando anche i diversi sottotipi di disturbo (per esempio i “washer”, cioè chi usa rituali di lavaggio, e i “checker”, chi invece tende a controllare e ri-controllare qualcosa), sono state manipolate diverse variabili (induzione di sporco, diversi livelli di responsabilità e altre) con lo scopo di indagare quando i pazienti riuscivano a sospendere le compulsioni e cosa permetteva loro di sospendere tali attività.

Nell’insieme, i risultati hanno rivelato che i motivi per cui una persona mette in atto le compulsioni includono, oltre alla riduzione dell’ansia, il timore di poter essere considerato responsabile di un danno da parte degli altri, da se stesso, o ancora, il tentativo di evitare dei danni, il senso di colpa associato e un generale senso di sollievo (o purificazione, nei washer). Un aspetto ulteriormente interessante che è emerso riguarda il dialogo narrativo interno che spingeva o accompagnava il comportamento compulsivo dei pazienti che hanno riportato messaggi a contenuto critico, punitivo o colpevolizzante, contraddistinti da un tono neutro ma dominante, e con un senso di impellenza. La Purdon attribuisce a questa voce interna un senso di autorità che spinge il paziente a eseguire urgentemente la compulsione, pena un’infrazione etico-morale. Il dialogo interno contribuirebbe a creare e mantenere nell’individuo un senso di incapacità di giudizio, di fallimento e inadeguatezza, caratteristiche di personalità riscontrabili nel DOC. I dati suggeriscono, inoltre, che l’interruzione della compulsione avviene non solo per il raggiungimento di un senso di completezza/soddisfazione (“I feel right”), quanto per l’intervento di un’esigenza imminente esterna (per esempio essere in ritardo o il sopraggiungere di un’altra persona) che “costringe” all’interruzione. Questo arresto forzato causato da un evento esterno distoglierebbe/de-legittimerebbe dall’eventuale accusa di responsabilità di un possibile danno da parte degli altri.

Nell’insieme, questi dati danno un importante suggerimento clinico. Oltre all’intervento classico di tipo cognitivo-comportamentale, il compito dello psicoterapeuta è quello di aiutare il paziente a fidarsi maggiormente dei propri giudizi, intervenendo sulla sua capacità di regolare da solo l’attuazione e la sospensione di eventuali comportamenti compulsivi, senza doversi rifare alle regole di una voce punitiva e sprezzante, che viene percepita dall’individuo come autoritaria e, soprattutto, insindacabile.

Aiuto dottore, sono pazzo… Ho il DOC!

di Annalisa Bello

Quando la disinformazione genera minacciosi luoghi comuni che procrastinano la richiesta d’aiuto a uno specialista, cronicizzando la sofferenza

L’antica credenza che considerava i pensieri ossessivi e i comportamenti compulsivi la manifestazione di una possessione sovrannaturale è oggi purtroppo rinvenibile nei luoghi comuni che satellitano intorno a uno dei disturbi che affligge molte persone: il disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Sorprende scoprire storie di vita solcate dalla sofferenza di una convivenza impossibile con la sintomatologia ossessiva, eppure sembrerebbe essere il prezzo da pagare per evitare di trovarsi a fronteggiare una diagnosi che, come un’aspra sentenza, condannerebbe la propria vita allo stigma della pazzia e a tutto ciò che questa impronunciabile parola fa echeggiare nella mente di ognuno. Il rapporto tra DOC e psicosi è complesso e alquanto confondente. Se nel Medioevo i pazienti con disturbo ossessivo compulsivo erano visti come posseduti da forze demoniache, nell’odierno senso comune può capitare di incorrere nel mito (da sfatare!) del DOC come vicino alla schizofrenia.

Con ossessioni ci si riferisce a tutte quei pensieri, immagini o impulsi che repentinamente fanno capolinSchermata 2016-05-02 alle 23.15.41o nella mente e la occupano in modo duraturo e continuo, con i loro contenuti ansiogeni, fastidiosi e senza senso. Proprio il contenuto irrazionale e apparentemente bizzarro dell’idea ossessiva può erroneamente accostarla ai deliri delle psicosi. A nutrire ulteriormente questo pericoloso luogo comune, ci sono le compulsioni che quando sono overt (scoperte, osservabili) si manifestano come dei comportamenti ritualizzati e “strani” che occorrono in risposta alle ossessioni, ponendosi come un tentativo di soluzione atto a neutralizzare la minaccia veicolata dalle stesse. Leggi tutto “Aiuto dottore, sono pazzo… Ho il DOC!”