Malattie intestinali e disagio psicologico

di Sonia Di Munno

Quali sono le cause che possono portare ad ansia e depressione e i trattamenti più efficaci

Le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) sono tutte quelle patologie infiammatorie croniche e recidivanti dell’intestino: le più comuni sono il morbo di Chron e la colite ulcerosa. Attualmente hanno origine sconosciuta e risultano dovute a un’interazione tra fattori ambientali, genetici e di microbica intestinale. Sono malattie con alti tassi di recidive o ricadute e lo stress psicologico è un fattore importante che contribuisce alla manifestazione frequente. Chi ne soffre sviluppa sintomi e patologie di ansia e depressione: in una revisione sistematica del 2016 si è visto che il 21% dei pazienti soffriva di una patologia ansiosa conclamata mentre il 35% presentava sintomi ansiosi subclinici; il 15% soffriva di depressione e il 22% dei pazienti riportava sintomi depressivi. Viste le alte percentuali di disagio psicologico, uno studio dello psichiatra statunitense Douglas A. Drossman ha cercato di indagare le macroaree che creano ansia e depressione in questi pazienti, per poter poi intervenire in maniera diretta ed efficace. Ne ha individuate quattro: impatto della malattia, preoccupazioni sul trattamento, intimità, stigma.

Per impatto della malattia si intende il cambiamento che la malattia porta a chi ne soffre. Nel caso specifico delle MICI, un cambiamento importante è nello stile alimentare come scelta del cibo con eliminazione completa di alcune pietanze. Inoltre, seguire a lungo termine dei regimi dietetici ristretti può portare ad atteggiamenti disadattivi, provocando ansia nei confronti del cibo e nel consumare il cibo in contesti conviviali. Alcuni incorrono in un’alimentazione disordinata o in comportamenti alimentari disfunzionali, come abbuffate, restrizioni e digiuno. Oltre ai problemi alimentari, nei pazienti con MICI è stata riscontrata un’alta soglia di stanchezza – diventata clinicamente significativa – presente nel 86% nei pazienti con patologia attiva e nel 22-41% con malattie quiescenti. Questo affaticamento è dovuto sia alla malattia che al disagio psicologico che questa comporta. Spesso i pazienti sviluppano anche insonnia e in alcuni casi possono sviluppare un disturbo postraumatico in cui l’evento traumatico è la diagnosi della malattia di fronte alla quale ci si può sentire spaventati e impotenti. Per lo sviluppo del disturbo da stress post-traumantico vi sono alcuni fattori di rischio predisponenti come: essere di sesso femminile, appartenere a un basso status socio-economico, essere affetti da una malattia più grave, avvertire dolore incontrollato, avere una giovane età al momento della diagnosi, aver subìto un intervento chirurgico, percepire in maniera molto intensa i sintomi e aver avuto almeno una recidiva della malattia.

Anche l’aspetto dell’intimità è di grande importanza nelle MICI: ben 2/3 dei pazienti riferiscono di avere problemi relativi all’immagine corporea e problemi sessuali. L’interesse sessuale ha un sostanziale decremento in molti pazienti, che può essere dovuto sia alla depressione ma anche al dolore che alcune donne riferiscono di avere durante il rapporto (25%) che non è associato al tipo di malattia o all’attività, all’uso di steroidi o alla presenza di malattia perianale ma può essere correlato alla disfunzione del pavimento pelvico.
L’aspetto della maternità risulta essere un tasto dolente per molte donne: il 18-22% riferisce di non voler avere figli per paura di trasmettere la malattia e la paura di portare avanti la gravidanza assumendo dei farmaci. Un altro macro aspetto per cui i pazienti sviluppano ansia e depressione è lo stigma che percepiscono dagli altri e la vergogna che possono provare di fronte a questa malattia che può portare a un maggiore isolamento e ritiro sociale, aumentando così ansia e depressione.

Di fronte a queste malattie croniche e recidive, lo sviluppo di un disagio psicologico è molto frequente e bisogna intervenire tempestivamente ed efficacemente per non incorrere in un sostanziale peggioramento della qualità delle vita. Attualmente le terapie più efficaci sono: la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’ipnosi medica. La terapia cognitivo comportamentale attenua i sintomi psicologici che queste malattie comportano, poiché ai pazienti viene insegnato a comprendere la relazione tra situazioni, pensieri, comportamenti, reazioni fisiche ed emozioni. I pazienti imparano a cambiare pensieri (attraverso la ristrutturazione cognitiva), comportamenti (attraverso cambiamenti programmati o prescritti nell’attività o nelle risposte) e livelli di eccitazione fisiologica (attraverso esercizi di rilassamento) al fine di ridurre il disagio emotivo. Nelle MICI, la CBT non ha dimostrato di alterare gli esiti della malattia, ma è risultata efficace nel migliorare la qualità della vita, le capacità di coping (adattamento efficace di fronte alla difficoltà), l’aderenza medica nonché nel diminuire i sintomi di ansia o depressione.

Per approfondimenti

Yue Sun, Lu Li, Runxiang Xie, Bangmao Wang, Kui Jiang and Hailong Cao (2019), Stress Triggers Flare of Inflammatory Bowel Disease in Children and Adults, Department of Gastroenterology and Hepatology, General Hospital, Tianjin Medical University, Tianjin, China, published: 24 October 2019 doi: 10.3389/fped.2019.00432

Tiffany H. Taft, Sarah Ballou, Alyse Bedell and Devin Lincenberg (2017), Psychological Considerations and Interventions in Inflammatory Bowel Disease Patient Care; Gastroenterol Clin North Am. 2017 December ; 46(4): 847–858. doi:10.1016/j.gtc.2017.08.007

Whitney Duff, Natasha Haskey, Gillian Potter, Jane Alcorn, Paulette Hunter, Sharyle Fowler (2018); Non-pharmacological therapies for inflammatory bowel disease: Recommendations for self-care and physician guidance; World J Gastroenterol 2018 July 28; 24(28): 3055-3070

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Genitori non si nasce, si diventa

di Sonia Di Munno

Depressione post partum. Un trattamento efficace per i genitori

Il periodo della gravidanza e quello successivo al parto sono molto particolari e delicati per la famiglia. La madre, in primis, vive un momento che può essere meraviglioso ed entusiasmante ma anche di grande fragilità e vulnerabilità. Il cambio di ruolo, la riorganizzazione familiare, le paure, il senso di inadeguatezza possono portare alcune donne a sviluppare una depressione post partum. Il disturbo generalmente esordisce dalla sesta alla dodicesima settimana dalla nascita del figlio: la madre si sente inadeguata, impotente e triste e molte volte provare questa tristezza può portare a sentimenti di colpa e vergogna che non permettono di chiedere aiuto.

Simile alla depressione post partum è il baby blues, un disturbo dell’umore transitorio (in genere scompare dopo il primo mese), molto comune nelle neomamamme, dovuto principalmente al cambiamento ormonale e caratterizzato da lievi sintomi depressivi.

La depressione post partum comporta una varietà di sintomi: dai disturbi del sonno, dell’appetito e di concentrazione alla sensazione di vuoto, inadeguatezza, dall’assenza di piacere a pensieri di poter far del male al bambino o che la vita sia inutile.

Vi sono dei fattori di rischio che possono portare alla depressione post partum, come avere una depressione prenatale, ansia prenatale, mancanza di supporto sociale, stress finanziario o coniugale ed eventi avversi nella vita, aver avuto in passato una precedente storia di depressione o aver sofferto di baby blues dopo la nascita. Anche la giovane età della madre può essere un fattore di rischio (è molto più frequente nelle madri adolescenti). Inoltre, come per molti altri disturbi, aver subito dei traumi (abusi sessuali sia nell’infanzia sia nell’età adulta) o aver sperimentano degli eventi stressanti prima e durante la gravidanza può portare a sviluppare questa patologia.

Di solito i trattamenti per questo disturbo comprendono l’uso dei farmaci antidepressivi e di psicoterapia; tuttavia durante la gravidanza e l’allattamento, devono essere molto ben valutati e limitati perché possono comportare rischi sia per il feto sia per la madre, aumentando la suscettibilità a disturbi come l’ipertensione. Per questo motivo sono stati studiati e convalidati nuovi trattamenti per il benessere della mamma e del bambino, con dei protocolli molto efficaci che si basano sui mindfulness-based programs (MBP) e sulla compassione.

I programmi basati sulla mindfulness (consapevolezza) sono corsi educativi mente-corpo, che hanno lo scopo specifico di allenare la mente, attraverso la pratica della meditazione, ad adottare una consapevolezza non giudicante focalizzata sul momento presente. Per “compassione”, si intende un particolare orientamento della mente che riconosce l’universalità della sofferenza nell’esperienza umana e coltiva la capacità di affrontare quella sofferenza con gentilezza, empatia e pazienza. Crescono le prove che la compassione sia un meccanismo importante negli MBP e alcuni ricercatori sostengono l’importanza di un’esercitazione pratica alla compassione all’interno del percorso. Questi trattamenti hanno dimostrato di essere efficaci sia per i sintomi di depressione sia per altri disturbi mentali.

Gli MBP producono un  miglioramento della salute e del benessere mentale e fisico,  riducono significativamente i sintomi della depressione e prevengono le recidiva alla stessa, oltre a essere un valido aiuto per la gestione e la riduzione dello stress. Nel caso specifico del periodo peri/post natale hanno aiutato anche a gestire il dolori e i fastidi della gravidanza (compreso quello del parto), diventando un valido aiuto per i genitori in attesa; queste pratiche hanno permesso anche di  aumentare la disponibilità e le attenzioni dei genitori alla cura del bambino una volta nato.

Genitori non si nasce ma si diventa, e questo momento di passaggio e di cambiamento nella vita di un genitore porta con sé anche tante paure e difficoltà, insite nella natura umana. Come diceva Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un essere umano, niente che sia umano mi è estraneo.

Per approfondimenti

Jennifer L. Payne, Jamie Maguire (2019), Pathophysiological Mechanisms Implicated in Postpartum Depression, Neuroendocrinol. 52: 165–180. doi:10.1016/j.yfrne.2018.12.001.

Ministero della salute (2017), La nostra salute, Enciclopedia Salute, Disturbi psichici, Depressione post partum

Olga Sacristan-Martin, Miguel A. Santed, Javier Garcia-Campayo, Larissa G. Duncan, Nancy Bardacke, Carmen Fernandez-Alonso, Gloria Garcia-Sacristan, Diana Garcia-Sacristan, Alberto Barcelo-Soler  and Jesus Montero-Marin (2019); A mindfulness and compassion-based program applied to pregnant women and their partners to decrease depression symptoms during pregnancy and postpartum: study protocol for a randomized controlled trial. Sacristan-Martin et al. Trials, 20:654 https://doi.org/10.1186/s13063-019-3739-z

Accettare l’insonnia e dormire di più

di Sonia Di Munno

La flessibilità psicologica diminuisce i problemi dell’insonnia: come e perché

L’insonnia è definita dal DSM 5 (quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come una costante insoddisfazione riguardo la qualità o quantità del sonno, che può manifestarsi nella difficoltà di addormentamento o nel mantenere il sonno durante la notte oppure in un risveglio precoce la mattina, associato a un malessere clinicamente significativo che inficia il funzionamento sociale, lavorativo, scolastico o altre aree importanti. Inoltre, per essere definito disturbo, deve avere la persistenza per almeno tre volte alla settimana e per almeno tre mesi, oltre a non essere spiegata da altre cause (mediche, ambientali, fisiologiche). Questa patologia, in base alla sua durata, si può distinguere in: disturbo episodico (se i sintomi durano da un minimo di un mese a un massimo di tre mesi); disturbo cronico (da più di tre mesi) o disturbo ricorrente (con due o più episodi durante l’anno). L’insonnia è molto diffusa, basti pensare che un terzo della popolazione mondiale ne soffre, con netta  prevalenza del genere femminile (4:1) e molto frequentemente in comorbilità con altri disturbi mentali, come ad esempio depressione, ansia, disturbi bipolari (40-50% dei pazienti). La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia (CBT-I) è uno dei trattamenti più efficaci per questo disturbo. Vi sono vari protocolli cognitivi comportamentali che hanno dimostrato la loro efficacia, come la Tecnica del Controllo degli Stimoli, la Tecnica della Restrizione del Sonno, la Tecnica dell’Igiene del Sonno e interventi di ultima generazione come la Terapia Cognitiva, le Tecniche di Rilassamento, la Fototerapia, la Tecnica della Compressione del Sonno e altre terapie sperimentali (Mindfulness e Neurofeedback).

Cause dell’insonnia e meccanismi di mantenimento

Vari studi, condotti già dai primi anni 2000, hanno dimostrato che chi soffre di insonnia ha un’attivazione fisiologica più elevata rispetto alla media (iperarousal) durante tutto l’arco della giornata e non solo di notte. Il rimuginio sugli eventi passati e la preoccupazione per il futuro sono due tipi di attività cognitive che sembrano essere prevalenti tra gli insonni e che possono servire come eccitazione che interferisce con i processi del sonno. Inoltre, in coloro che non riescono a dormire, è frequente la preoccupazione riguardo all’insonnia e alle conseguenze che questa possa portare nella vita diurna: il che causa lo sforzo di controllare il sonno che porta a un circolo vizioso disfunzionale  (impedendo l’addormentamento poiché aumenta il livello di vigilanza e rimuginio). Altri studi dimostrano che gli insonni presentano delle credenze catastrofiche sulle conseguenze della mancanza di sonno per il funzionamento mentale e fisico e credenze dicotomiche “sonno buono” e “sonno cattivo”, dividendosi in due cluster assoluti e inflessibili. Inoltre, l’alta correlazione con uno stile di personalità perfezionistica e controllante, in cui il sonno è percepito come conseguenza di uno sforzo volontario e necessario, porta a esacerbare i sintomi dell’insonnia e rende necessario l’intervento psicoterapico e psicoeducazionale.

Terapia ACT per curare l’insonnia

Un trattamento alternativo e di nuova generazione è la terapia ACT (Acceptance and Commitment Therapy, terapia dell’accettazione dell’impegno), che mira a migliorare la flessibilità psicologica, cioè la capacità di attuare un comportamento adattivo basato su valori, nonostante l’esistenza di esperienze angoscianti. Vari studi si sono concentrati sugli effetti di questo trattamento su molti disturbi psicopatologici, come anche nell’ansia e nella depressione, riscontrando una grande efficacia della terapia sia nel breve sia nel lungo termine.
Nel 2019 è stato condotto uno studio campione che correlava la terapia ACT con la qualità del sonno, confrontandolo con altri studi campione precedenti. I risultati di questa ricerca hanno dimostrato che, sottoporre il paziente a delle sessioni di questa terapia, ha portato a un aumento significativo della durata del sonno, una riduzione dei risvegli e, in alcuni casi, a un più facile addormentamento. Tutto ciò influisce su una migliore qualità ed efficienza del sonno. Il motivo dietro gli effetti dell’ACT sul sonno sono i cambiamenti degli atteggiamenti e dei pensieri dei pazienti riguardo al sonno e alla diminuita concentrazione sulle cause dell’insonnia e al suo controllo. Questa terapia sostituisce il concetto di controllo con quello di disponibilità o accettazione: il che rende questo approccio molto adatto nel trattamento dell’insonnia, poiché i problemi del sonno rappresentano un esempio paradigmatico in cui le strategie di cambiamento intenzionale sono destinate a fallire. In particolare, la componente di accettazione potrebbe ridurre il controproducente sforzo dell’aumentare volontariamente e attivamente il tempo del sonno, portando così anche un’ulteriore attivazione mentale disfunzionale e trascurando altri valori personali della vita che possono portare benessere e soddisfazione. Inoltre, la tecnica della defusione e vedere il sé come contesto mirano a sganciarsi e a mettere in discussione le idee catastrofiche e dicotomiche sull’insonnia, portando a un maggiore rilassamento, vedendo questi pensieri non più come pericolosi o spaventosi ma come innocui. Nell’ACT vi è anche il costrutto di Mindfulness, che porta a una maggiore consapevolezza del “qui ed ora”, diminuendo il rimuginio sul passato e sul futuro. Inoltre, l’azione Impegnata basata sui valori permette al paziente di non trascurare le cose per lui davvero importanti e ad acquisire una migliore qualità della vita. Tutto ciò contribuisce ad aumentare la flessibilità psicologica, processo che è stato studiato come un buon predittore di una buona qualità del sonno.

La terapia ACT, essendo una terapia cognitivo comportamentale di terza generazione e relativamente recente, necessita ancora di altri studi  e ricerche per avvalorare questi dati di collegamento con l’insonnia, anche se già da questi prime ricerche risultano essere molto correlati e in maniera altamente significativa. Pertanto, sulla base degli studi attualmente disponibili, si può affermare che l’ACT migliora la qualità del sonno dei pazienti che soffrono di insonnia.

Per approfondimenti

Ali Zakiei, Habibolah Khazaie (2019), The Effectiveness of Acceptance and Commitment Therapy on Insomnia Patients (A Single-arm Trial Plan), Journal of Turkish Sleep Medicine 3:65-73, DOI:10.4274/jtsm.galenos.2019.74745

American Psychiatric Association (2014), DSM – 5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina

Elisabeth Hertenstein , Nicola Thiel , Marianne Lüking, Anne Katrin Külz , Elisabeth Schramm, Chiara Baglioni,

Kai Spiegelhalder , Dieter Riemann, Christoph Nissen (2014); Quality of Life Improvements after Acceptance and Commitment Therapy in Nonresponders to Cognitive Behavioral Therapy for Primary Insomnia; Psychother Psychosom;83:371–373 DOI: 10.1159/000365173

Lars-Gunnar Lundh (2000); An Integrative Model for the Analysis and Treatment of Insomnia, Scandinavian Journal Of Behaviour Therapy Vol 29, No 3-4, Pages 118–126

Michael L.perlis, Carla R. Jungquist, Michael T. Smith, Donn Posner_ edizione italiana a cura di Palagini, Bontempelli, Gemignani e Guazzelli (2012); Il trattamento cognitivo- comportamentale dell’insonnia,  Franco Angeli

Tsukasa Kato (2016); Impact of psychological inflexibility on depressive symptoms and sleep difficulty in a Japanese sample, Kato SpringerPlus 5:712 DOI 10.1186/s40064-016-2393-0

Superare la vergogna senza evitarla


di Sonia Di Munno

Il trattamento della vergogna nell’Acceptance and Commitment Therapy

La vergogna è uno stato emotivo doloroso basato su una percezione di sé come individuo vulnerabile o imperfetto e si accompagna spesso a molti disturbi, come l’ansia, l’autolesionismo, la depressione, il disprezzo di sé. Può diventare un fattore di mantenimento della psicopatologia e complicarne l’efficacia del trattamento: in vittime di abusi, ad esempio, la vergogna può dare origine a comportamenti di autocritica e di autodisprezzo. Dato il suo impatto sui problemi di salute mentale, è utile quindi mirare a un trattamento specifico su questa emozione.

Le caratteristiche della persona che tende a provare vergogna sono: intensificata autoattenzione, alta riflessione su di sé e, talvolta, senso di colpa. I ricercatori Stephen Parker e Rebecca Thomas hanno descritto le differenze cognitive, affettive e motivazionali tra vergogna e senso di colpa. Le due emozioni, infatti, sono diverse dal punto di vista affettivo poiché nella colpa vi è maggiore empatia verso gli altri mentre nella vergogna si è più centrati su di sé, e dal punto di vista motivazionale perché nella vergogna vi è la tendenza a isolarsi per proteggersi dagli altri mentre nella colpa il rimorso spinge a ripagare il danno (sia percepito che reale) arrecato agli altri.
Alcuni studi sulla diminuzione della vergogna hanno rilevato esiti positivi di approcci basati sulla mindfulness e sull’accettazione, tra cui la terapia cognitivo comportamentale di terza generazione dell’ACT (Acceptance an Commitment Therapy). 

Le applicazioni dell’ACT sono state oggetto di oltre 65 studi pubblicati, per un totale di 4000 partecipanti a livello internazionale. Il suo approccio originale e peculiare è basato nel modo in cui si affrontano i pensieri e le emozioni del paziente.

Per quanto riguarda la vergogna, l’ACT concettualizza una fusione cognitiva della persona con pensieri autodisprezzanti e con l’evitamento di entrare in contatto con gli stessi pensieri, sentimenti e ricordi. Nel tentativo di evitare sentimenti vergognosi, infatti, il paziente evita di percepire il potenziale supporto delle relazioni, agisce compulsivamente sugli stimoli e il che non fa altro che esacerbare questi sentimenti dolorosi. Le persone alle prese con la vergogna (come con le altre emozioni) possono sentirsi obbligati a modificarle perché credono che dovrebbero, o non dovrebbero, sperimentarle o che non possono affrontarle. Questo controllo fa in modo che il paziente rimanga “fuso” (ancorato) a questo pensiero e il che può portare a un aumento della ruminazione sulla vergogna e valutazioni negative di sé. Questo ciclo di autoperpetuazione impedisce all’individuo di apprendere altre strategie efficaci: di vedersi come qualcosa oltre la sua vergogna e di essere consapevole dei momenti in cui questo sentimento è meno preponderante. In un esperimento sulla vergogna di pazienti che abusano di sostanze, condotto nel 2011 dall’americano Jason Luoma e da suoi collaboratori, l’ACT ha influito a ridurre la vergogna ed i pensieri autovalutativi denigranti e a ridurre l’uso di sostanze, con un aumento dell’efficacia del trattamento. Queste tecniche aiuterebbero, quindi, le persone ad allontanarsi dai comportamenti di evitamento. Per questo motivo l’ACT promuoverebbe non solo di accettare i sentimenti associati alla vergogna, ma anche di accettare la natura variabile della sofferenza, nel senso che ci saranno alcuni giorni in cui la proverà di più e altri di meno, portandolo a concentrarsi sui valori e gli obiettivi importanti per vivere a pieno la propria vita.

Per approfondimenti

Gutierrez e Bryce Hagedorn. The Toxicity of Shame Applications for Acceptance and Commitment Therapy; 2013; Volume 35; Number I; Pag 43-59; Journal of Mental Health Counseling

Hayes,  Strosahl e Wilson  (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford Press.

Luoma, Drake, Koholenberg, Hayes (2011). Substance abuse and psychological flexibility: The development of a new measure. Journal Addiction Research & Theory, Volume 19, 2011 – Issue 1

Parker, Thomas (2009). Psychological Differences in Shame vs. Guilt: Implications for Mental Health Counselors. Journal of Mental Health Counseling Volume 31/Number 3/July 2009/Pages 213-224

 

Follower e haters: uguali o diversi?

di Sonia Di Munno

Gli adolescenti e i social media: il tema del confronto e dell’invidia nei social media

L’uso dei social network è una delle attività preferite dagli adolescenti e, negli ultimi dieci anni, è diventata importante per la connessione, la comunicazione e la socializzazione con gli altri, nonché un modo per rafforzare l’identità ed esprimere la propria opinione. 

Indagando gli aspetti positivi dei social è emerso che: diminuiscono lo stress, attraverso la distrazione che permette una pausa dalla pressione lavorativa; aumentano la percezione di un sostegno sociale, grazie alla facilità nel rimanere in contatto e di fare nuove amicizie; permettono di esprimere i propri pensieri e contenuti e di auto-presentarsi. D’altro canto, l’uso e, soprattutto, l’abuso dei social ha fatto emergere effetti negativi come: l’hikikomori, vale a dire l’isolamento sociale, poiché si delegano alla sola esperienza virtuale i contatti e le amicizie;  la diminuzione dell’efficienza lavorativa; la crescita di fenomeni dannosi come il cyberbullismo, il sexting, il ricatto, la dipendenza da internet, dai videogiochi e dai giochi d’azzardo online.

In concomitanza con l’utilizzo dei social media, si è vista incrementare nelle persone,  in maniera particolare negli adolescenti, l’emozione dell’invidia tra pari, scaturita da un costante confronto sociale basato anche su falsi miti di felicità e benessere.

Lo psicologo e sociologo statunitense Leon Festinger, nella sua “teoria del confronto sociale”, ha dimostrato che gli individui sono motivati ​​a confrontarsi con i simili per valutare le proprie capacità e prestazioni e che, sebbene ciò avvenga comunemente con colleghi, familiari e amici nella vita quotidiana reale, il paragone è amplificato nei social media, dove c’è una maggiore tendenza a esporre le proprie caratteristiche positive. Il lavoro accurato e continuo per mantenere la propria identità e reputazione sui social media può suscitare ansia, bassa autostima e problemi di depressione soprattutto negli adolescenti che sono più invischiati in questo meccanismo. Nell’accentuato confronto sociale, trova terreno fertile l’emozione dell’invidia definita come “una miscela spiacevole e spesso dolorosa di sentimenti causati da un confronto con una persona o un gruppo di persone che possiedono qualcosa che desideriamo” oppure come “un’emozione dolorosa che deriva dal confronto con qualcuno che possiede qualcosa che noi vorremmo”. 

Da uno studio su 250 teenagers dai 13 ai 19 anni, è emerso che gli adolescenti che usano con più intensità i social media (misurata in termini di percezione di attaccamento agli stessi, più che dall’uso effettivo) sono anche più propensi all’invidia e al confronto, soprattutto se vivono in contesti molto competitivi. La tendenza ad avere un maggiore confronto con gli altri, infatti, non nasce solo dai social network, che ne sono un terreno fertile, ma può avere origine nell’educazione genitoriale, che spesso tende a comparare i propri figli con i compagni di scuola. Un comportamento che porta gli adolescenti a sviluppare personalità e comportamenti negativi come gelosia, rivalità e perdita di fiducia in se stessi, conducendoli a essere più inclini all’invidia, più suscettibili alle critiche e a impegnarsi di più nell’autopresentazione e promozione di sé. La tendenza a provare più confronto sociale e invidia dipende anche dal tipo di relazioni che si instaurano con i pari. La competizione e concorrenza attiva il sistema motivazionale interpersonale del rango che è alla base dell’idea che essere più forti e superiori dell’altro porti a un maggiore accesso alle risorse disponibili; per avvenire ciò, l’altro deve riconoscere questa superiorità attraverso l’ammirazione; al contrario, quando si pensa di avere delle caratteristiche o qualcosa che gli altri non apprezzano, c’è una diminuzione di autostima e sensazione di inferiorità o invidia. Per questo motivo trovarsi in un gruppo di pari in cui è forte il tema del confronto e della competizione induce una forte pressione psicologica nell’adolescente e a provare più invidia nei confronti degli amici. 

Non sono i social media, dunque, a scaturire negli adolescenti il tema del confronto e dell’invidia. Ma sono certamente un contesto fecondo per il proliferarsi di comportamenti negativi appresi nell’ambiente sociale di appartenenza.

Per approfondimenti

Peerayuth Charoensukmongkol (2018), The Impact of Social Media on Social Comparison and Envy in Teenagers: The Moderating Role of the Parent Comparing Children and In-group Competition among Friends; J Child Fam Stud 27:69–79

Shunyu Li, Hao Lei, Lan Tian (2018); Social Behavior And Personality, 46(9), 1475–1488 Scientific Journal Publishers Limited. All Rights Reserved, https://doi.org/10.2224/sbp.7631

Stefano Eleuteri , Valeria Saladino e Valeria Verrastro (2017). Identity, relationships, sexuality, and risky behaviors of adolescents in the context of social media; sexual and relationship therapy, vol. 32, nos. 3–4, 354–365; https://doi.org/10.1080/14681994.2017.1397953

Don’t look back in anger

 di Sonia Di Munno
L’angry rumination è un processo di pensieri perseveranti e coscienti che si presentano in assenza di richieste ambientali che riguardano un evento che ha procurato rabbia. L’evento può essere sia personale sia capitato ad altri significativi (figlio, partner, etc.).
Un corposo esperimento del 2002 su 600 studenti universitari, condotto da Brad Bushman, ha cercato di capire se questo processo aumentasse la rabbia e l’aggressività nelle persone. I gruppi sperimentali erano tre e a tutti veniva detto che un altro partecipante (finto e non visibile) aveva criticato la loro tesi.
Poi, un primo campione doveva colpire il sacco da box pensando alle critiche che gli erano state fatte; un secondo gruppo, mentre colpiva il sacco, doveva pensare a quanto questo esercizio fisico li facesse diventare in forma e un altro gruppo non doveva fare niente: né pensare e né colpire il sacco. Dopo di che, a tutti e tre i gruppi veniva data la possibilità di vendicarsi degli insulti punendo il finto partecipante con dei rumori che lui avrebbe sentito in cuffia. Da questo esperimento si è visto che le persone che erano indotte a ruminare rabbiosamente sull’accaduto (primo gruppo) si mostravano più arrabbiate e aggressive verso il partecipante offensivo rispetto agli altri due gruppi: ciò dimostra che l’angry rumination aumenta la rabbia e l’aggressività. In altri due esperimenti si è dimostrato che l’angry rumination porta anche a una displaced aggression (aggressività spostata), nel senso che questa aggressività può essere inferta anche nei confronti di chi non aveva nulla a che fare con la provocazione iniziale.Questi risultati forniscono un quadro per la comprensione di situazioni in cui gli individui aggrediscono il partner o i figli dopo una giornata stressante di lavoro.
Un altro studioso, Thomas Denson, si è occupato invece di studiare il fenomeno dell’angry rumination secondo un modello di sistemi multipli: cognitivo, neurobiologico, affettivo, sistema di autocontrollo e comportamentale. Approfondendo il processo dal punto di vistacognitivo, il ricercatore ha individuato tre elementi fondamentali che caratterizzano questa esperienza fenomenologica, ognuno con le sue conseguenze neurobiologiche e affettive.
Focus sul contenuto.
Il focus della ruminazione può essere sull’evento (focus sulla provocazione), accompagnato a volte dal desiderio di vendetta; o relativo alle implicazioni che l’evento ha avuto su di sé (focus se stessi). Tra le due modalità, la prima può portare di più a un agìto aggressivo e una maggiore attivazione del sistema cardiovascolare (forse perché il corpo si prepara a un possibile attacco contro il persecutore), mentre avere il focus su di sé porta a una maggiore attivazione psicologica con aumento dell’affettività negativa autocritica e a una maggiore produzione di cortisolo.
Modalità di elaborazione.
Un altro modo in cui la ruminazione differisce è la sua modalità. La modalità analitica produce uno stile di elaborazione astratto e consiste nel concentrarsi sul “perché” sia successo qualcosa pensando alle cause e alle conseguenze dell’episodio che ha prodotto la rabbia. La modalità esperienziale produce uno stile di elaborazione più concreto e consiste nel concentrarsi su “che cosa” sia successo, pensando ai dettagli dell’evento e alle ​emozioni che ha suscitato in noi. La prima modalità porta a mantenere la rabbia mentre la seconda porta a una rivalutazione dell’accaduto in maniera più obiettiva e positiva.
Tipo di prospettiva.
Un altro modo di differenziare questo processo è se il rimuginatore ha una prospettiva centrata su di sé o distanziante. La prima modalità porta la persona rivivere l’evento in prima persona inducendola anche a riviverne gli aspetti emotivi, mentre la seconda comporta un’analisi dell’accaduto in modo più distaccato (analizzandolo in terza persona). La prima modalità porta la persona a rivivere l’esperienza con le stesse sensazioni mentre nella seconda emerge più un distacco emotivo dall’esperienza vissuta.
Poiché l’angry rumination può portare a un aumento di aggressività, rabbia, problemi cardiovascolari, stress, affettività negativa e a minore autocontrollo e problemi psicopatologici, è interessante capire come, dal punto di vista evoluzionistico, questo processo si sia sviluppato e quale sia stata la sua utilità adattiva. Degli studi affermano che originariamente sia stato funzionale: per mantenere le faide nelle varie generazioni (aumentando l’unione nel gruppo e allontanando l’estraneo); per superare l’inibizione per l’aggressione del nemico (progettando mentalmente la vendetta e aumentando la rabbia); per
diminuire le probabilità del perdono, aumentando così le possibilità di accoppiamento e approvvigionamento delle risorse ambientali e a mantenere un’attivazione fisiologica di allerta costante.
Attualmente, nelle società moderne, questo processo ha più effetti negativi che positivi ed è diventata disfunzionale all’adattamento e al benessere di chi lo sperimenta; più utile è invece il perdono che permette alle persone di superare i torti ricevuti e a progettare un rapporto più costruttivo in modo che la relazione possa continuare o, in ogni caso, non fa rimanere intrappolati nel passato sprecando energie e risorse mentali e fisiche.
Per approfondimenti:
Bushman Brad J., 2002, Does Venting Anger Feed or Extinguish the Flame? Catharsis, Rumination, Distraction, Anger, and Aggressive Responding, Iowa State University
Denson Thomas F., 2009 , Angry Rumination and the Self-Regulation of Aggression, Universityof New South Wales
Denson Thomas F., 2012, The Multiple Systems Model of Angry Rumination, Personality and Social Psychology Review 17(2) 103–123, DOI: 10.1177/1088868312467086 pspr.sagepub.com
Sukhodolsky Denis G., Golub A. Cromwell Erin N., 2001, Development and validation of the anger rumination scale, Personality and Indivisual Differences 31 689-700

Neurogenesi e “pattern separation”

di Sonia di Munno

Una neurogenesi disregolata può favorire disturbi neuropsichiatrici come la depressione o l’ansia e influenzare la capacità di distinguere stimoli differenti, incrementando il malessere psicologico

La neurogenesi è il processo che induce la formazione di nuovi neuroni funzionali. Inizialmente si pensava che questo potesse accadere solo durante le fasi di embriogenesi e le fasi perinatali dello sviluppo del sistema nervoso; invece, negli ultimi due decenni, la ricerca ha stabilito fermamente che vi sia una nascita di nuovi neuroni anche nell’adulto in due zone germinali: il giro dentato dell’ippocampo e la zona subventricolare dei ventricoli laterali. I neuroni generati negli adulti formano connessioni sinaptiche e vengono integrati nel circuito. Negli esseri umani si stima che ci siano circa 700 nuovi neuroni che vengono aggiunti nel giro dell’ippocampo ogni giorno, che vanno a sostituire circa il 30% di tutta la struttura durante tutta la vita. Questi dati indicano che il numero dei nuovi neuroni incorporati nel circuito dell’ippocampo del cervello siano abbastanza numerosi da influenzare la funzione dell’ippocampo; inoltre, questi partecipano alla modulazione e al miglioramento di tutto il circuito neuronale, che riguarda sia la fisiologia regionale che la connettività funzionale di regioni cerebrali più distanti, come la corteccia prefrontale, l’amigdala e altre strutture all’interno del sistema limbico.
Diversi studi hanno dimostrato che una neurogenesi disregolata possa contribuire al manifestarsi di disturbi neuropsichiatrici come il Disturbo depressivo maggiore e l’ansia. La neurogenesi nell’ippocampo può essere ridotta sia da stress acuti sia cronici o da un isolamento sociale: il che porterebbe a fenotipi depressivi e ansiosi mentre, al contrario, interventi terapeutici che promuovono il benessere psichico stimolano la neurogenesi nell’ippocampo.
La neurogenesi dell’ippocampo è implicata in una varietà di processi mentali come la memoria, la memoria spaziale, la codifica di nuove informazioni e le funzioni esecutive. Infatti, pazienti con depressione maggiore presentano costantemente problemi nella memoria a lungo termine, nella memoria di lavoro (pregiudizio emotivo negativo) e nella funzione esecutiva (risoluzione dei problemi, controllo dell’attenzione, pianificazione e inibizione cognitiva).
Un nuovo modello sostiene che la diminuzione della neurogenesi influenzi anche una funzione dipendente dall’ippocampo di “pattern separation” (discriminazione degli stimoli) e come questo processo deficitario poi selezioni, di fronte a stimoli ambigui, le risposte che siano più familiari, stereotipate o automatiche. Questa funzione, se non deficitaria, permetterebbe di discriminare e memorizzare target simili ma non identici ed elaborarli come informazioni sensoriali con rappresentazioni distinte. Negli studi con soggetti depressi in compiti sperimentali che richiedono una forte discriminazione sensoriale degli stimoli è stata riscontrata un’ipoattivazione del giro dentato dell’ippocampo con prestazioni deficitarie nell’abilità del “pattern separation” della corteccia frontale. Ciò spiegherebbe alcuni dei fenomeni osservati in pazienti con disturbo depressivo maggiore, in quanto confonderebbero degli stimoli simili rispondendo come se fossero identici (rispondendo con tristezza sia a eventi negativi che ambigui), selezionando una risposta che incrementa il malessere psicologico. Questa incapacità sensoriale di discriminare le informazioni porterebbe a una minore flessibilità psicologica, abilità stimolata dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), il cui fulcro sta nel selezionare consapevolmente le risposte comportamentali in base ai valori scelti piuttosto che a pensieri e azioni stereotipate familiari (es. abitudini disadattive), che forniscono sollievo a breve termine ma sviluppano maggiori problematicità nel lungo termine.

Per approfondimenti:

Kellen Gandy, Sohye, Carla Sharp, Lilian Dindo, Mirjana Maletic-Savatic and Chadi Calarge; Pattern Separation: A Potential Marker of Impaired Hippocampal Adult Neurogenesis in Major Depressive Disorder, 2017; HYPOTHESIS AND THEORY; doi: 10.3389/fnins.2017.00571

Cyberbullismo. Un fenomeno virale

di Sonia Di Munno

Definizione, diffusione e soggetti a rischio. Tratti psicologici e sociali del cyberbullo

La crescita nella disponibilità dei dispositivi elettronici e l’uso dei social media per comunicare con il gruppo di pari, conosciuti e non, sono diventati ormai una consuetudine di tutti i giorni. Questo fenomeno sociale si è anche sviluppato di pari passo con il cyberbullismo, una manifestazione di bullismo attuato attraverso la rete.
Il professore di genetica comportamentale dell’università di Leicester, Charalambos P. Kyriacou, definisce il cyberbullismo come la “trasmissione per via elettronica di umilianti, angoscianti e minacciosi messaggi e immagini offensive che colpiscono un particolare individuo o un gruppo di individui”. Il fenomeno è molto diffuso, basti pensare che in Italia su 819 studenti intervistati, ben il 16,2% ne è stato vittima. Inoltre, sembra che il coinvolgimento degli studenti nel cyberbullismo raggiunga il suo picco tra i 12 e i 14 anni e che ci sia una polarizzazione verso il genere femminile.
Presa consapevolezza di queste statistiche, è importante approfondire il perché alcuni studenti siano inclini a questo comportamento problematico, mentre altri (fortunatamente ancora la maggioranza) non lo sono.
Una ricerca interessante ha cercato di tracciare la psicologia del cyberbullo, indagando degli aspetti specifici: se il cyberbullo agisca per esibizionismo o in modo solitario e privato; se l’attacco è alimentato da un odio o vendetta personale verso la vittima conosciuta o se è dovuta a una mancanza di empatia verso gli altri o se a un discontrollo nell’utilizzo dei social media.

Nella definizione classica di bullo, sono quattro gli aspetti che i ricercatori hanno individuato:

  • il comportamento del bullo causa angoscia e tristezza nella vittima;
  • il bullo è più potente della vittima;
  • la vittima viene ripetutamente bersagliata dal bullo;
  • il bullo vuole causare intenzionalmente angoscia e paura nella vittima.

Questi aspetti nel contesto del cyberbullismo sono molto più complessi. La ricerca ha dimostrato che il fenomeno in rete differisce dal bullismo tradizionale in modo importante in quanto nel cyberbullismo è meno presente un coinvolgimento empatico del danno che si sta inferendo (mancando il rapporto face-to-face che permette di vedere la conseguenza del proprio comportamento sull’altro) e avendo una minore consapevolezza  morale (riducendosi a un atto afinalistico). Nell’aggressore si sono riscontrati anche più bassi livelli di empatia cognitiva (capire le emozioni e gli stati altrui) e di empatia affettiva (rispondere affettivamente agli stati emotivi delle altre persone). Anche il disimpegno morale è un fattore significativo per tale comportamento: per disimpegno morale si intende il processo di autoregolamentazione per cui l’aggressore si deresponsabilizza di fronte all’aggressione inferta cambiando le credenze e la valutazione dell’atto stesso (per esempio, con giustificazioni, responsabilità condivisa o esterna, minimizzando il danno arrecato, incolpando la vittima, ecc.).
Si sono delineate cinque tipologie psicologiche del cyberbullo: il cyberbullo socievole, il cyberbullo solitario, il cyberbullo narcisistico, il cyberbullo sadico e il cyberbullo moralmente orientato.
Il cyberbullo socievole è colui che ha la finalità di divertirsi e far divertire i suoi amici, la vittima è spesso inconsapevole e non sa delle immagini o messaggi offensivi che lo riguardano.
Il cyberbullo solitario ha pochi amici e passa la maggior parte del tempo su internet e le sue vittime possono essere sia persone conosciute nella realtà sia, molto spesso, persone sconosciute o anche personaggi famosi, che possono trasformarsi in vere e proprie ossessioni.
Il cyberbullo narcisista è attratto dal desiderio di esercitare potere sulla vittima, è prepotente e arrogante, prova orgoglio nel potere che internet gli può procurare ed è attratto dal desiderio di essere visto e ammirato. È il più pericoloso in quanto cerca immagini o video sempre più sensazionali sulla vittima in modo che diventino virali e accrescano la sua sensazione di gloria e potenza.
Il cyberbullo sadico si diverte nell’infliggere disagio e angoscia alla vittima e, anche senza vederla, prova soddisfazione e compiacenza nell’immaginare la sofferenza inferta all’altro.
Il cyberbullo moralmente orientato ha un comportamento finalizzato nel fare giustizia su una azione ricevuta dalla vittima o su un comportamento giudicato deplorevole. È mosso da un desiderio di vendetta, rivincita, giustizia o invidia nei confronti della vittima.
I confini tra queste classificazioni non sono ben delineati e spesso nel cyberbullo coesistono più tipologie.
Una migliore comprensione di questi tipi di cyberbullismo potrà assicurare delle migliori strategie da utilizzate per prevenire il cyberbullismo e capire le caratteristiche psicologiche (sia personali sia sociali) che sostengono tale comportamento.

Per approfondimenti:

Kyriacou, Chris (2016) A Psychological Typology of Cyberbullies in Schools. Psychology of Education Review. ISSN 1463-9807.

Namin Shin, EdD, and Hwasil Ahn (2015) Factors Affecting Adolescents’ Involvement in Cyberbullying: What Divides the 20% from the 80%,Cyberpsychology, behavior, and social networking; Volume 18, Number 7,DOI: 10.1089/cyber.2014.0362

Vassilis Barkoukis, Lambros Lazuras, Despoina Ourda e Haralambos Tsorbatzoudis (2016), Tackling Psychosocial Risk Factors for Adolescent Cyberbullying: Evidence From a School-Based Intervention; Aggressive Behavior Volume 42, Pages 114–122

Vita di coppia: litigare con lealtà

di Sonia Di Munno

I valori principali per avere un rapporto soddisfacente sono connessione, prendersi cura e collaborazione. La terapia di coppia con tecniche ACT

“Ci sono due tipi di coppie: quelle che non litigano mai e quelle che non conosci davvero bene”.  Così scrive argutamente Russ Harris, psicoterapeuta cognitivo comportamentale e principale esponente della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), sulle relazioni di coppia.
L’ACT è un approccio di terza generazione della psicoterapia cognitivo comportamentale che pone l’accento su due fattori cardine per il benessere psicologico: l’accettazione e l’impegno che conducono alla flessibilità psicologica. La ricerca scientifica sta dimostrando che più alto è il nostro livello di flessibilità psicologica, migliore sarà la nostra qualità di vita. La flessibilità psicologica è definita come “l’abilità di adattarsi a una situazione con apertura e consapevolezza, di focalizzarsi e di intraprendere un’azione efficace guidata dai propri valori”. Essa è composta da due aspetti: essere psicologicamente presenti (mindfulness) e intraprendere azioni efficaci (motivate, orientate, consapevoli, flessibili e adattabili).
Ricerche di John Gottman e Nan Silver su un cospicuo campione di coppie hanno trovato che ciò che rende una relazione salutare non è la quantità di litigi, ma il modo in cui si litiga; per cui quando il litigio è amichevole con un po’ calore e tenerezza, le ferite saranno lievi e guariranno velocemente.
I loro dati mostrano anche che uno dei fattori chiave per una relazione sana è la presenza dei “tentativi di riparazione”, cioè ogni gesto, parola e azione destinati a riparare la relazione. La ricerca di Gottman afferma che persino quando le coppie litigano molto, ma lo fanno lealmente e sono presenti tentativi di riparazione, la loro relazione può essere molto sana e gratificante. Affinché questi tentativi vadano a buon fine, entrambi devono capirne il valore del “dare” e del “ricevere”. Anche chi “riceve” deve essere in grado di apprezzare e non respingere i tentativi del partner. Il conflitto è inevitabile, ma lottare lealmente, riparare, praticare la compassione, chiedere con gentilezza, lo renderanno meno distruttivo.
Verrebbe da pensare: ma come si fa a litigare senza disprezzo e critica ma lealmente e in modo compassionevole? Su questo la terapia ACT, impostando lo stile di vita personale e di coppia su valori personali e obiettivi, attraverso tecniche che ci allontanano dall’essere troppo incentrati sui nostri pensieri (come la defusione e l’espansione) e guardando il momento presente (mindfulness), porta il suo cospicuo contributo. Molto importante è anche sfatare i falsi miti sull’amore proposti dai film e dalle favole, che non fanno altro che allontanarci dalla realtà dei fatti. Ci sono cinque modalità fondamentali che allontanano i partner: la disconnessione, la reattività impulsiva, l’evitamento, rimanere dentro la propria mente e trascurare i propri valori. Di contro, a queste comuni modalità che ci allontanano non solo dal nostro partner, ma anche da quello che idealmente vorremmo essere noi come partner, possiamo applicare altri sistemi più funzionali e soddisfacenti come: mollare la presa, aprirsi, dare valore e impegnarsi attivamente. Fondamentali nella terapia ACT sono i valori personali, dove per valori si intende i desideri più profondi rispetto a ciò che si vuole fare e al significato che si vuole attribuire al tempo passato su questa terra. Vivere una vita seguendo i propri valori ci fa sentire liberi, leggeri e aperti alla vita; questi sono anche comportamenti desiderati che riguardano un processo continuo nell’arco della propria vita, non sono una meta ma una direzione. Nelle relazioni, i valori principali per avere un rapporto soddisfacente sono essenzialmente tre: connessione, prendersi cura e collaborazione. Oltre a questi, ce ne sono tanti altri, ma avere una carenza in queste tre aree porta a lungo andare a un impoverimento della relazione e una sua rottura. Questi tre valori sono alla base dell’amore, del calore e dell’intimità e conducono a una maggiore connessione con il partner e ad un dialogo aperto, curioso e tollerante.
Tutto ciò non è così facile, bisogna imparare a tollerare delusioni, ansia, preoccupazioni, tristezza; emozioni che comunque fanno parte dell’esperienza umana. Fare spazio anche alle emozioni negative e non avere pregiudizi su di esse ci permette di vivere la vita nelle sue sfaccettature e non essere spaventati o arrabbiati quando le proviamo.
La terapia ACT, che si basa principalmente su un intervento esperienziale, propone tanti esercizi, tante situazioni in cui mettersi in gioco e tante riflessioni da applicare in maniera pratica. È un viaggio dentro di sé e verso l’altro. La disponibilità a imparare, crescere, adattarsi, abbracciare la realtà (anche quando è spiacevole), mettersi in discussione, affrontare le differenze, ecc., farà in modo che la flessibilità psicologica aumenti e che si possa vivere appieno la propria vita in tutte le sue umane sfaccettature.

Per approfondimenti

“Se la coppia è in crisi.Impara a superare frustrazioni e risentimenti per ricostruire una relazione consapevole”, 2011; Russ Harris, FrancoAngeli

Gottman J., Silver N. (1999), Intelligenza emotiva per la coppia, Milano, Rizzoli