Mindfulness e gioco d’azzardo

di Alessandro Giurgola

Il ruolo della psicoterapia basata sulla mindfulness nel trattamento del craving del gioco d’azzardo patologico (gap)

Il Gioco d’azzardo patologico (GAP) entra nel 2014 in una nuova sezione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) intitolata “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction” segnando un passaggio fondamentale nella psicopatologia. Joseph

Nowak e altri accademici statunitensi nel 2014 hanno rilevato che la prevalenza del GAP tra gli universitari era del 10,23%, in aumento rispetto al passato, grazie anche alla diffusione di massa del gioco online.

Il GAP, come le altre addiction, è contraddistinto da fasi di craving – desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una sostanza psicoattiva -, discontrollo emotivo e dipendenza. Il lavoro psicoterapeutico finalizzato alla prevenzione delle ricadute è diretto al craving in quanto elemento di mantenimento del problema. I modelli comportamentali automatici del GAP che conducono il soggetto a rispondere impulsivamente agli stimoli scatenanti (triggers) sono fondamentali per il paziente per educarlo a tollerarli e non replicarli.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è il principale tra gli approcci utilizzati per il trattamento del Gioco d’azzardo patologico e l’evidenza empirica supporta la sua efficacia. La CBT, in particolare quella basata sulla pratica della Mindfulness (MBCT), promuove l’importanza di riconoscere il pensiero come prodotto dalla nostra mente e non come sinonimo di fatto (pensiero ≠ realtà), preferendo accettarne l’esistenza piuttosto che modificarne il contenuto. La Mindfulness porta intenzionalmente consapevolezza alle sensazioni corporee, ai pensieri e alle emozioni coinvolti nel craving. I pazienti acquisiscono abilità a osservarne le caratteristiche come farebbero spettatori esterni, come se appartenessero a qualcun altro. L’effetto atteso è quello di ridurre la durata, l’intensità e l’importanza del desiderio di giocare d’azzardo.

In uno studio della psichiatra canadese Diane McIntosh e colleghi, vengono messi a confronto l’efficacia della CBT attraverso la formulazione e la condivisione del caso, i protocolli classici e la MBCT per trattare il GAP. Tutti e tre gli interventi hanno ottenuto miglioramenti significativi a tre e sei mesi di follow-up. La Mindfulness è stata più efficace dei classici protocolli CBT nel ridurre il comportamento problematico e lo stress associato. Gli autori hanno concluso che un breve intervento di Mindfulness, psicoeducazione e CBT, possono essere un utile complemento rispetto ai soli protocolli CBT, favorendo la riduzione della ruminazione e la soppressione del pensiero disfunzionale automatico.

Perché la MBCT è utile nel GAP?
Perché aumenta la consapevolezza di sé, riduce le risposte automatiche e quindi le ricadute; le emozioni negative associate al craving e alle ricadute sono sostituite dalla compassione verso di sé; il valore delle ricompense ottenute tramite il gioco diminuisce; vengono sviluppati maggiori valori personali; la tolleranza alla frustrazione aumenta con una maggiore capacità di ritardare le ricompense.

Affrontare i propri impulsi è cruciale nella gestione dei problemi legati al gioco d’azzardo e la Mindfulness sembra essere un’ottima alleata degli psicoterapeuti.

Per approfondimenti

Ventola A. M., Yela José Ramón, Crego A., Maria Cortés-Rodríguez, Effectiveness of a mindfulness-based cognitive therapy group intervention in reducing gambling-related craving, Journal of Evidence-Based Psychotherapies, Vol. 20, No. 1, March 2020, 107-134

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La psicoterapia è sempre positiva?

di Chiara Mignogna

Se molti pazienti ottengono un cambiamento clinico significativo, alcuni di loro potrebbero sperimentare eventi avversi e indesiderati

Se un martello funziona per infilare un chiodo, funziona anche nel pestare un dito. La psicoterapia, nei suoi diversi approcci, è stata ampiamente dimostrata essere efficace e in grado di produrre effetti benefici sui pazienti.

Nel corso degli anni, la ricerca si è largamente occupata di dimostrarne l’efficacia, con lo scopo di individuare gli interventi più adeguati in relazione a specifiche problematiche psicologiche e quindi maggiormente in grado di produrre effetti positivi sui pazienti, ad esempio in termini di riduzione della sintomatologia e di una migliore qualità di vita.

Tuttavia è importante considerare che un trattamento che ha la capacità di aiutare una persona può essere anche causa di potenziali effetti negativi. Se sosteniamo, infatti, che la psicoterapia funziona ed è in grado di promuovere cambiamenti positivi nella vita delle persone, è allo stesso tempo lecito sostenere che sia potenzialmente in grado di produrne di negativi, altrimenti il suo funzionamento potrebbe essere messo in discussione!

Se l’interesse per l’efficacia e quindi per gli esiti positivi della psicoterapia è dimostrato dalla mole di studi presenti in letteratura, sorprende invece come non ci sia lo stesso interesse nel valutare e cercare quelli che possono essere gli effetti negativi di una psicoterapia, come se essa fosse esente dal rapporto rischio-beneficio in cui incorrono le altre pratiche cliniche, come la medicina o la farmacologia. Infatti, la maggior parte degli studi clinici si concentra esclusivamente sull’esito del trattamento e sul numero di pazienti che ottengono un cambiamento clinico significativo, ignorando il fatto che alcuni di loro potrebbero sperimentare eventi avversi e indesiderati.

La ricerca sugli effetti negativi in psicoterapia può, d’altro canto, essere complicata da diversi aspetti. In primo luogo, perché può essere difficile avere un consenso su cosa si intende per effetto negativo e cosa ancora più difficile è poter stabilire un rapporto di causa-effetto tra eventi avversi e psicoterapia.

Diversi eventi negativi e indesiderati possono verificarsi durante un trattamento terapeutico ma è importante saper riconoscere quelli correlati alla psicoterapia da quelli dovuti all’influenza di altri fattori interferenti, come ad esempio il decorso naturale di alcune patologie o l’impatto indesiderato di alcuni fattori stressanti quotidiani.

Si parla di effetti negativi della psicoterapia, invece, quando tali effetti sono attribuibili al trattamento terapeutico.

Secondo una definizione proposta dallo psichiatra tedesco Michael Linden e il suo gruppo di ricerca e ora adottata a livello internazionale, gli effetti negativi causati da una terapia eseguita correttamente vengono definiti “effetti collaterali”. Essi includono: la dipendenza dal terapeuta o la sua idealizzazione, lo stigma, il peggioramento dei sintomi o l’insorgenza di nuovi, le difficoltà relazionali con il proprio partner oppure difficoltà che insorgono in altri ambienti come lavoro, famiglia e amici.

Gli effetti collaterali di una psicoterapia vanno, però, distinti dagli effetti avversi dovuti a un trattamento effettuato in maniera inadeguata, ad esempio attribuibili a negligenza e a malpratica da parte del terapeuta, come una diagnosi o un trattamento sbagliato, oppure causati da condotte non etiche da parte del terapeuta stesso come abusi, violenze e pregiudizi.

La distinzione tra le conseguenze di una terapia eseguita in modo adeguato da quelle di una terapia impropria ed errata è di fondamentale importanza e permette di valutare oggettivamente quali possono essere gli effetti negativi di una corretta psicoterapia, ovvero gli effetti collaterali.

La conoscenza e la consapevolezza dei potenziali effetti collaterali permettono non solo di informare i pazienti sui rischi e benefici degli interventi terapeutici, ma forniscono al terapeuta l’opportunità di contrastarli o addirittura prevenirli.

In considerazione dell’importanza che tale tema occupa nella pratica clinica e delle poche ricerche presenti, è in corso uno studio, diretto da Claudia Perdighe, psicologa e psicoterapeuta della Scuola di Psicoterapia cognitiva di Roma (SPC), che ha l’obiettivo di indagare gli effetti negativi della psicoterapia su un vasto campione italiano e quali variabili correlano con la loro presenza.

Tutte le persone maggiorenni che hanno effettuato o stanno tuttora effettuando un percorso di psicoterapia possono contribuire alla ricerca accedendo al link qui di seguito riportato:

https://apc.questionpro.com/a/TakeSurvey?tt=73Bip3EJ3WY%3D

Per approfondimenti

  • Foulkes, P. (2010). The therapist as a vital factor in side-effects of psychotherapy. Australian and New Zealand Journal of Psychiatry, 44(2), 189-189.
  • Herzog, P., Lauff, S., Rief, W., & Brakemeier, E. L. (2019). Assessing the unwanted: A systematic review of instruments used to assess negative effects of psychotherapy. Brain and behavior, 9(12), e01447.
  • Klatte, R., Strauss, B., Flückiger, C., & Rosendahl, J. (2018). Adverse effects of psychotherapy: protocol for a systematic review and meta-analysis. Systematic reviews, 7(1), 1-7.
  • Ladwig, I., Rief, W., & Nestoriuc, Y. (2014). What are the risks and side effects of psychotherapy? development of an inventory for the assessment of negative effects of psychotherapy (INEP). Verhaltenstherapie, 24(4), 252-63.9).
  • Linden, M., & Schermuly-Haupt, M. L. (2014). Definition, assessment and rate of psychotherapy side effects. World Psychiatry, 13(3), 306.
  • Linden, M., Strauß, B., Scholten, S., Nestoriuc, Y., Brakemeier, E. L., & Wasilewski, J. (2018). Definition and Decision-Making in the Determination and Detection of Side Effects of Psychotherapy. PPmP-Psychotherapie· Psychosomatik· Medizinische Psychologie, 68(09/10), 377-382.
  • Rozental, A., Kottorp, A., Boettcher, J., Andersson, G., & Carlbring, P. (2016). Negative effects of psychological treatments: An exploratory factor analysis of the negative effects questionnaire for monitoring and reporting adverse and unwanted events. PloS one, 11(6), e0157503.8)
  • Moritz, S., Nestoriuc, Y., Rief, W., Klein, J. P., Jelinek, L., & Peth, J. (2018). It can’t hurt, right? Adverse effects of psychotherapy in patients with depression. European archives of psychiatry and clinical neuroscience, 269(5), 577-586.

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Sensi di colpa e auto-perdono

di Antonella d’Innocenzo

La Compassion Focused Therapy per ridurre il timore di colpa nei pazienti ossessivi

È di recente pubblicazione sulla rivista Frontiers in Psychiatry il lavoro dal titolo “Compassion-Focused Group Therapy for Treatment-Resistant OCD: Initial Evaluation Using a Multiple Baseline Design”. Lo studio, condotto presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC), diretta dallo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, ha avuto come obiettivo quello di verificare se promuovere lo sviluppo e la coltivazione di un atteggiamento compassionevole nei confronti di sé e di auto-perdono in un gruppo di pazienti con Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), porterebbe alla riduzione della sintomatologia ossessiva, in particolare del timore di colpa, delle compulsioni messe in atto per prevenirlo e della tendenza a criticarsi per questo.

Numerosi studi e osservazioni cliniche hanno evidenziato come il timore di colpa e di essere disprezzati moralmente per la propria condotta sia un aspetto centrale nella genesi e nel mantenimento del disturbo. Le esperienze precoci di rimprovero, da parte delle figure significative, potrebbero aver contribuito in questi pazienti alla formazione di credenze secondo cui commettere un errore significa essere una persona poco degna, meritevole di umiliazione e di disprezzo. Da qui, oltre allo sviluppo di un’attitudine a prevenire le colpe catastrofiche e imperdonabili, attraverso le compulsioni, lo sviluppo di una forte tendenza a criticarsi per il comportamento attuato e per la propria sofferenza, atteggiamento che mantiene e aggrava il problema principale.

L’intervento si è avvalso dell’utilizzo della Compassion Focused Therapy (CFT), terapia cognitivo- comportamentale sviluppata dallo psicologo clinico Paul Gilbert per il trattamento dell’autocritica, la cui efficacia è stata ampiamente dimostrata per svariate condizioni psicopatologiche: disturbi alimentari, Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), ansia, depressione e psicosi. Le tecniche proposte da quest’approccio terapeutico mirano allo sviluppo di una motivazione di cura e supporto nei confronti di sé e degli altri (la compassione), che passa attraverso la comprensione empatica delle proprie difficoltà e il desiderio di prendersene cura, sviluppando abilità e attributi volti a raggiungere questa finalità (consapevolezza; empatia; calore; tolleranza del giudizio; interesse per il benessere).

Per lo studio è stato utilizzato un protocollo di gruppo di CFT su un campione di otto partecipanti con diagnosi di Doc, resistenti al trattamento cognitivo-comportamentale standard, che per otto incontri settimanali sono stati guidati nella pratica clinica da due terapeuti formati in CFT. Le sessioni hanno previsto momenti di psicoeducazione, pratiche meditative e d’immaginazione per lo sviluppo della compassione verso sé e verso gli altri, condivisione di gruppo e assegnazione di homework. I risultati dello studio pilota hanno mostrato che al post-intervento il 100% dei pazienti ha ottenuto riduzione significativa dei sintomi rispetto alla baseline e che gli effetti sono mantenuti al follow-up per sei degli otto pazienti. Per molti si è osservata, inoltre, una riduzione dei sintomi della depressione, del timore di colpa e della tendenza ad autocriticarsi. Sembrerebbe dunque che promuovere una maggiore accettazione delle proprie sofferenze e imperfezioni, considerandole esperienze connaturate alla condizione umana, aiuterebbe i pazienti a essere più disposti ad accettare la minaccia di colpa, i dubbi ossessivi, ad astenersi dalle compulsioni e a criticarsi di meno per esse (“Sono solo un essere umano e, come tutti, non posso evitare di commettere errori: quando succederà, mi prenderò cura di me, perdonandomi e facendo qualcosa di utile per stare meglio”). Ulteriori studi saranno necessari per verificare l’effetto specifico della terapia utilizzata e per migliorare l’implementazione della stessa.

Per approfondimenti:

http://journal.frontiersin.org/article/10.3389/fpsyg.2020.594277/full?&utm_source=Email_to_authors_&utm_medium=Email&utm_content=T1_11.5e1_author&utm_campaign=Email_publication&field=&journalName=Frontiers_in_Psychology&id=594277

Costi emotivi dell’infertilità

di Rossella Cascone

Le difficoltà legate all’infertilità sono un problema sempre più diffuso, con importanti costi sociali, emotivi ed economici, al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona

“Dottoressa sono a pezzi, nemmeno questa volta è andata bene. In cuor mio avevo la convinzione che questa volta c’eravamo riusciti… E invece mi è tornato il ciclo. Ho paura. E se non riuscissi ad avere figli? Forse ho aspettato troppo… Ho paura… non pensavo che tutto questo potesse succedere proprio a noi”.

Le parole di questa donna sono solo un esempio di pensieri ed emozioni che possono travolgere una coppia nel momento in cui si scontra con le difficoltà di avere un figlio e a diventare genitori.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera l’infertilità come una patologia e la definisce come l’assenza di concepimento dopo 12/24 mesi di regolari rapporti sessuali mirati non protetti. Tale patologia può essere legata a uno o più fattori interferenti, relativi all’uomo o alla donna, e si riferisce a una situazione che generalmente è risolvibile. Si differenzia quindi dalla sterilità, condizione in cui nella coppia un individuo o entrambi sono affetti da una patologia fisica permanente che rende impossibile il concepimento.

Secondo i dati pubblicati dall’Istituto Superiore della Sanità (www.iss.it) l’infertilità riguarda circa il 15% delle coppie in Italia e il 10-12% nel mondo.

Le difficoltà legate all’infertilità sono un problema sempre più diffuso, con importanti costi sociali, emotivi ed economici, al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona.

L’infertilità, inoltre, può influenzare significativamente vari aspetti di vita delle donne come la salute fisica, la salute mentale, la salute sociale e, più in generale, la qualità di vita.

Nel corso degli anni, innumerevoli ricerche hanno voluto spiegare la relazione tra infertilità e fattori psicologici e i risultati attuali possono essere riassunti in tre ipotesi di base.

La prima si focalizza sull’effetto delle problematiche psicologiche sulla comparsa dell’infertilità, ritenendo che quest’ultima sia un problema psicosomatico, e orientando le ricerche sulle conseguenze degli aspetti affettivi sull’attività neuroendocrina, come ad esempio stress e stati emotivi mal regolati.

La seconda ipotesi pone l’attenzione sulle conseguenze psicologiche dell’infertilità nella coppia, focalizzando così le ricerche sull’osservazione delle reazioni emotive della coppia durante le varie fasi: diagnosi, trattamento medico e post-trattamento.

Infine, la terza ipotesi pone l’accento sulla relazione reciproca tra i fattori psicologici e l’infertilità.

La diagnosi di infertilità e le cure mediche concomitanti sono eventi piuttosto stressanti per la coppia e numerose ricerche, nel corso degli anni, hanno evidenziato che problemi di fertilità possono provocare una serie di sintomi negativi che rendono gli individui più vulnerabili sia da un punto di vista fisico sia psichico.

In particolare, viene evidenziato come persone e coppie infertili abbiano, o sviluppino durante il percorso, una serie di sintomi negativi come depressione, ansia, bassi livelli di autostima e mostrino stati di colpa, vergogna e rabbia, e altri sintomi psicosomatici che possono interferire con le procedure terapeutiche mediche. Ad esempio, uno studio recente di Eniko Lakatos e collaboratori ha rivelato che le donne infertili mostrano uno stato psicologico significativamente peggiore in termini sia di depressione sia di ansia rispetto a un gruppo di donne fertili o alla popolazione normale.

Nella coppia, questo si traduce in difficoltà di comunicazione e problemi sessuali, al di fuori si trasforma spesso in ritiro o, a volte, isolamento. Può quindi verificarsi una vera e propria crisi coniugale che produce effetti negativi sulla qualità di vita, sul benessere psicologico di ciascun partner, su un aumento dei conflitti e sulla relazione sessuale. Lakatos e collaboratori hanno rilevato che le donne infertili riferiscono più problemi sessuali e che questa problematica si associa ad aumento del livello di sintomi depressivi, ipotizzando che la preoccupazione sessuale potrebbe essere una manifestazione fondamentale della gravità dei problemi psicologici legati all’infertilità.

Nel 2004, all’interno delle linee guida dell’ESHRE (European Society of Human Reproduction and Embryology), è stato stabilito che i pazienti infertili siano seguiti anche da un punto di vista psicologico. Gli interventi di supporto per le coppie infertili si stanno quindi diffondendo nella pratica clinica come opportunità per dedicare loro uno spazio e un tempo nei quali discutere dei propri dubbi, delle proprie paure e di come l’infertilità ha influenzato la loro vita.  La coppia, di fronte a una diagnosi di infertilità, dovrà quindi intraprendere un percorso molto impegnativo di accettazione del problema, di fronteggiamento delle pressioni sociali, di elaborazione del lutto rispetto alla perdita ideale di sé e della propria immagine corporea, fino a giungere alla riflessione sull’importanza della genitorialità e sulla propria motivazione ad avere un figlio, per poter così decidere se affrontare il lungo iter dalla PMA (procreazione medicalmente assistita) o se trovare soluzioni alternative al figlio biologico.

Per approfondimenti

Bakhtiyar K., Beiranvand R., Ardalan A., Changaee F., Almasian M., Badrizadeh A., Bastami F., Ebrahimzadeh F. An investigation of the effects of infertility on women’s quality of life: A case-control studyBMC Women’s Health. 2019;19:114. doi: 10.1186/s12905-019-0805-3

Kainz, K. (2001). The role of the psychologist in the evaluation and treatment of infertility. Women’s Health Issues; 11(6): 481-485.

Lakatos E., Szigeti J.F., Ujma P.P., Sexty R., Balog P. (2017). Anxiety and depression among infertile women: a cross-sectional survey from Hungary. 17:48. doi: 10.1186 / s12905-017-0410-2.

Mitsi C., Efthimiou K., (2014). Infertility: psychological-psychopathological consequences and cognitive-behavioural interventions.  Psychiatrike= Psychiatriki – europepmc.org

Strauss, B. (2002).  Involuntary Childlessness. Psychological assessment, counseling, and therapy. Seattle: Hogrefe & Huber Publishers; 127-150.

Thorn, P. (2009). Infertility counselling: alleviating the emotional burden of infertility and infertility treatment. International Journal of Fertility and  Sterility.; 3(1): 1-4.

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Che cos’è la felicità

di Carlo Buonanno

Topolino, Faust e la promozione di emozioni positive in età evolutiva

Se vi chiedessero di scegliere tra l’elisir di lunga vita e la felicità, cosa scegliereste? Io avrei scelto Mickey Mouse. Topolino non è un bambino, non è sposato e non ha nemmeno uno zio ricco. Pippo, fedele e stralunato come Pluto, è l’amico che, maldestro, gli guarda le spalle. Topolino è un adolescente e non sarà mai nonno, è integerrimo, ha l’anima del detective delle cause impossibili e aiuta il commissario Basettoni a incastrare Gamba di Legno o Macchia Nera.
Topolino è felice, ma ha lo sguardo offuscato e lotta con i demoni per una somma virtù. Ma che cos’è che lo rende così sorridente? È davvero felice? Ed è possibile diffondere la felicità come un contagio benefico?
Recentemente è stata pubblicata una ricerca condotta su un campione di adolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), che nel titolo promette di rispondere in parte alla domanda. Lo studio è stato realizzato da Caterina Villirillo, Claudia Perdighe, Elena Cirimbilla e Gilda Franceschini, psicologhe e psicoterapeute della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma. Si tratta di uno studio pilota che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un protocollo sperimentale di promozione del benessere, che mira a migliorare la qualità e la quantità delle relazioni interpersonali negli adolescenti con DSA. Il protocollo è nato da una duplice riflessione. Le relazioni interpersonali soddisfacenti, in particolar modo con i pari, hanno un ruolo critico per la felicità in età evolutiva e, dunque, anche nei ragazzi con DSA; nell’80% dei casi, i ragazzi con DSA manifestano problematiche di tipo relazionale, laddove la presenza di un buon supporto sociale è un fattore di protezione per la salute mentale. Ma di quale felicità si parla? La felicità intesa come “eudemonia”, vale a dire connessa a una valutazione globale di sé come persona virtuosa e che vive in linea con i propri valori morali. Proprio come Topolino.
Anche Faust, insidiato da Mefistofele e guardato da Dio con ammirazione per lo stesso motivo, supera i limiti della conoscenza, conducendo una vita dedita allo studio e alla virtù. Questa è una felicità che ha uno scopo, motore della condotta individuale e fondamento della morale. Non una felicità effimera, infantile, che si consuma rapidamente nell’attimo in cui si scioglie in bocca il sapore di una caramella, ma una felicità pratica e impegnata. In questi termini, la felicità coincide con uno stato di benessere e soddisfazione che si esprime sia nella presenza di emozioni positive sia, soprattutto, nel buon funzionamento psicologico, inteso come capacità di mettere in atto quotidianamente comportamenti che favoriscono il benessere e riflettono i propri valori. Contro ogni pregiudizio, questo tipo di felicità sembra essere tipico degli adolescenti, mentre nei bambini la felicità è edonica, legata agli aspetti concreti del piacere quali il gioco, le attività di gruppo, il numero di amicizie, le frequenze delle visite agli amici. E a proposito di praticità, gli ingredienti che in età evolutiva correlano con la felicità si dispongono lungo una gerarchia concreta che vede all’apice le relazioni interpersonali con i coetanei e poi l’autonomia, la competenza, avere una buona autostima, avere un sistema di valori da perseguire, avere un locus of control interno. Il protocollo sviluppato dalle autrici è stato realizzato assemblando tecniche di tipo cognitivo-comportamentale standard con procedure mutuate dall’Acceptance and Commitment Therapy. Il protocollo si sviluppa in dieci sedute a cadenza settimanale, più due di follow-up a cadenza quindicinale e si divide in tre fasi:

  • La prima fase, “Conosco me stesso e i miei valori”, è dedicata alla promozione della consapevolezza dei punti di forza e di debolezza del soggetto e alla condivisione di obiettivi da raggiungere in riferimento ai propri valori.
  • La fase centrale, “Mi impegno a perseguire i miei valori e i miei obiettivi”, è focalizzata sull’individuazione di micro-obiettivi da raggiungere settimanalmente, allo scopo di realizzare gli obiettivi stabiliti nella fase precedente. In questa fase, una parte importante è dedicata sia alla ristrutturazione di eventuali credenze disfunzionali, sia all’acquisizione di abilità assertive.
  • La fase conclusiva, “Io più abile socialmente e consapevole delle mie risorse”, consiste nella valutazione degli obiettivi raggiunti e nella generalizzazione delle competenze apprese.

Dall’analisi qualitativa dei dati pre e post-trattamento emerge una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione rilevati nella fase di pretrattamento, un aumento dell’autostima e dell’autoefficacia e un aumento della qualità e della quantità dei rapporti interpersonali. Inoltre, dai risultati è emerso un miglioramento significativo nel rendimento scolastico. Le abilità acquisite sono confermate anche al follow-up di un mese. In definitiva, pare che l’adolescenza sia la vera età della ragione e la felicità è roba terribilmente impegnata. Tra un’indagine di Topolino e la dura ricerca di Faust, oltre i limiti della conoscenza.

Per approfondimenti

Villirillo, C., Perdighe, C., Cirimbilla, E., & Franceschini, G. (2021). Promuovere la felicità: uno studio pilota con un campione di ragazzi con Disturbo Specifico di Apprendimento. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, Italian Journal of Cognitive and Behavioural Psychotherapy, 27(1) pp 17-44.

Fare i compiti: bambini e genitori

di Stella Totino

Dai circoli viziosi ai circoli virtuosi: l’autoefficacia

Sin dalle prime fasi di apprendimento può capitare, per diversi motivi, che il momento dei compiti si trasformi in un vero e proprio incubo per genitori e figli. Il bambino che fatica a svolgere una determinata attività, esattamente come l’adulto, sarà meno attratto da quel compito perché lo porterà a non sentirsi capace.

Si possono presentare, sin dai primi giorni di scuola primaria, dei circoli viziosi che se non interrotti accompagneranno figli e genitori per tutto il lunghissimo percorso scolastico.

Vediamo cosa può succedere: è arrivato il momento di fare i compiti, bisogna sbrigarsi perché dopo bisogna andare in piscina, a basket, a calcio o semplicemente bisogna giocare. Nel momento in cui viene invitato dal genitore a prepararsi per fare i compiti, il bambino sta facendo un gioco che sicuramente lo interessa maggiormente, pertanto cercherà di evitare quell’impegno giornaliero, tendendo a procrastinare, dicendo di non avere scritto i compiti, di non avere il libro, facendo i “capricci”, piangendo. Allo stesso tempo, il genitore sperimenta un “cocktail” di emozioni, dall’ansia al senso di colpa, fino alla rabbia, che non lo aiuteranno a interrompere tale circolo. I “virus mentali”, più frequentemente riportati sono: “non riusciremo mai a finire tutto prima di uscire e quando torneremo sarà pure stanco e non li finirà”; “le insegnanti penseranno che non ci interessiamo a nostro figlio e che per noi la scuola non è importante”; “continuando così non lo aiuterò ad avere un futuro”; “non può mica fare come gli pare, non sono a sua disposizione tutto il giorno, i compiti si fanno quando lo dico io”.

A lungo andare, queste situazioni rischiano di logorare il rapporto genitori-figli e di compromettere il rapporto con lo studio.

Per interrompere tale circolo può essere importante incrementare l’autoefficacia dei figli e dei genitori. Lo psicologo canadese Albert Bandura nel 1986 ha definisce l’autoefficacia come la “fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Secondo lo stesso autore tale concetto si fonda su 4 tipologie di esperienze:

  1. Esperienze dirette: che possono essere di successo o insuccesso. Nel nostro caso, sarebbe importante incrementare le occasioni di successo nello svolgimento dei compiti. Uno strumento molto utile in tal senso è la pianificazione sia della giornata, in modo che sia facilmente prevedibile, sia delle attività che devono essere svolte, sia dei materiali necessari.
  2. Osservare le esperienze degli altri genitori: ci può aiutare a modificare i virus mentali, passando da “non posso farcela” a “se ci sono riusciti gli altri posso riuscirci anche io”.
  3. Persuasione verbale: sia attraverso apprezzamenti e rassicurazioni provenienti dall’esterno da persone ritenute autorevoli, sia attraverso le proprie convinzioni. Nel primo caso potrebbe aiutare un rinforzo da parte degli insegnanti: “Vedo che state lavorando sempre meglio, si vede che vi state impegnando”. Nel secondo: “Ce la faremo, con la calma e le giuste strategie andrà sempre meglio”.
  4. Gestione del vissuto emotivo, compresi gli stati fisiologici che accompagnano l’emozione. Nella gestione dei compiti, ciò può avvenire con il riconoscimento del proprio stato emotivo e dello stato emotivo dell’altro, l’accettazione e la gestione.

Più genitori e figli si sentiranno competenti, meglio affronteranno il momento dei compiti, più sperimenteranno successo ed emozioni positive più tale momento diventerà piacevole.

Soprattutto quando tutto questo si accompagna a storia personale di insuccesso scolastico o a una condizione di disturbo del neurosviluppo, può essere utile affidare tale compito a un tutor e/o a un percorso di psicoterapia che incrementi l’autoefficacia percepita, il riconoscimento, l’accettazione e la gestione delle emozioni.

Per approfondimenti:

Bandura A. (2000), Autoefficacia: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson.

Moè A. e Friso G. (2014), L’ora dei compiti. Come favorire atteggiamenti positivi, motivazione e autonomia nei propri figli, Trento, Erickson.

Foto di Gustavo Fring da Pexels

Malattie intestinali e disagio psicologico

di Sonia Di Munno

Quali sono le cause che possono portare ad ansia e depressione e i trattamenti più efficaci

Le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) sono tutte quelle patologie infiammatorie croniche e recidivanti dell’intestino: le più comuni sono il morbo di Chron e la colite ulcerosa. Attualmente hanno origine sconosciuta e risultano dovute a un’interazione tra fattori ambientali, genetici e di microbica intestinale. Sono malattie con alti tassi di recidive o ricadute e lo stress psicologico è un fattore importante che contribuisce alla manifestazione frequente. Chi ne soffre sviluppa sintomi e patologie di ansia e depressione: in una revisione sistematica del 2016 si è visto che il 21% dei pazienti soffriva di una patologia ansiosa conclamata mentre il 35% presentava sintomi ansiosi subclinici; il 15% soffriva di depressione e il 22% dei pazienti riportava sintomi depressivi. Viste le alte percentuali di disagio psicologico, uno studio dello psichiatra statunitense Douglas A. Drossman ha cercato di indagare le macroaree che creano ansia e depressione in questi pazienti, per poter poi intervenire in maniera diretta ed efficace. Ne ha individuate quattro: impatto della malattia, preoccupazioni sul trattamento, intimità, stigma.

Per impatto della malattia si intende il cambiamento che la malattia porta a chi ne soffre. Nel caso specifico delle MICI, un cambiamento importante è nello stile alimentare come scelta del cibo con eliminazione completa di alcune pietanze. Inoltre, seguire a lungo termine dei regimi dietetici ristretti può portare ad atteggiamenti disadattivi, provocando ansia nei confronti del cibo e nel consumare il cibo in contesti conviviali. Alcuni incorrono in un’alimentazione disordinata o in comportamenti alimentari disfunzionali, come abbuffate, restrizioni e digiuno. Oltre ai problemi alimentari, nei pazienti con MICI è stata riscontrata un’alta soglia di stanchezza – diventata clinicamente significativa – presente nel 86% nei pazienti con patologia attiva e nel 22-41% con malattie quiescenti. Questo affaticamento è dovuto sia alla malattia che al disagio psicologico che questa comporta. Spesso i pazienti sviluppano anche insonnia e in alcuni casi possono sviluppare un disturbo postraumatico in cui l’evento traumatico è la diagnosi della malattia di fronte alla quale ci si può sentire spaventati e impotenti. Per lo sviluppo del disturbo da stress post-traumantico vi sono alcuni fattori di rischio predisponenti come: essere di sesso femminile, appartenere a un basso status socio-economico, essere affetti da una malattia più grave, avvertire dolore incontrollato, avere una giovane età al momento della diagnosi, aver subìto un intervento chirurgico, percepire in maniera molto intensa i sintomi e aver avuto almeno una recidiva della malattia.

Anche l’aspetto dell’intimità è di grande importanza nelle MICI: ben 2/3 dei pazienti riferiscono di avere problemi relativi all’immagine corporea e problemi sessuali. L’interesse sessuale ha un sostanziale decremento in molti pazienti, che può essere dovuto sia alla depressione ma anche al dolore che alcune donne riferiscono di avere durante il rapporto (25%) che non è associato al tipo di malattia o all’attività, all’uso di steroidi o alla presenza di malattia perianale ma può essere correlato alla disfunzione del pavimento pelvico.
L’aspetto della maternità risulta essere un tasto dolente per molte donne: il 18-22% riferisce di non voler avere figli per paura di trasmettere la malattia e la paura di portare avanti la gravidanza assumendo dei farmaci. Un altro macro aspetto per cui i pazienti sviluppano ansia e depressione è lo stigma che percepiscono dagli altri e la vergogna che possono provare di fronte a questa malattia che può portare a un maggiore isolamento e ritiro sociale, aumentando così ansia e depressione.

Di fronte a queste malattie croniche e recidive, lo sviluppo di un disagio psicologico è molto frequente e bisogna intervenire tempestivamente ed efficacemente per non incorrere in un sostanziale peggioramento della qualità delle vita. Attualmente le terapie più efficaci sono: la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’ipnosi medica. La terapia cognitivo comportamentale attenua i sintomi psicologici che queste malattie comportano, poiché ai pazienti viene insegnato a comprendere la relazione tra situazioni, pensieri, comportamenti, reazioni fisiche ed emozioni. I pazienti imparano a cambiare pensieri (attraverso la ristrutturazione cognitiva), comportamenti (attraverso cambiamenti programmati o prescritti nell’attività o nelle risposte) e livelli di eccitazione fisiologica (attraverso esercizi di rilassamento) al fine di ridurre il disagio emotivo. Nelle MICI, la CBT non ha dimostrato di alterare gli esiti della malattia, ma è risultata efficace nel migliorare la qualità della vita, le capacità di coping (adattamento efficace di fronte alla difficoltà), l’aderenza medica nonché nel diminuire i sintomi di ansia o depressione.

Per approfondimenti

Yue Sun, Lu Li, Runxiang Xie, Bangmao Wang, Kui Jiang and Hailong Cao (2019), Stress Triggers Flare of Inflammatory Bowel Disease in Children and Adults, Department of Gastroenterology and Hepatology, General Hospital, Tianjin Medical University, Tianjin, China, published: 24 October 2019 doi: 10.3389/fped.2019.00432

Tiffany H. Taft, Sarah Ballou, Alyse Bedell and Devin Lincenberg (2017), Psychological Considerations and Interventions in Inflammatory Bowel Disease Patient Care; Gastroenterol Clin North Am. 2017 December ; 46(4): 847–858. doi:10.1016/j.gtc.2017.08.007

Whitney Duff, Natasha Haskey, Gillian Potter, Jane Alcorn, Paulette Hunter, Sharyle Fowler (2018); Non-pharmacological therapies for inflammatory bowel disease: Recommendations for self-care and physician guidance; World J Gastroenterol 2018 July 28; 24(28): 3055-3070

Foto di Sora Shimazaki da Pexels

I nostri casi clinici su Mind

di Federica Russo

Psicologi e psicoterapeuti della Scuola di psicoterapia cognitivo comportamentale di Roma contribuiscono alla stesura di casi clinici sul mensile di neuroscienze e psicologia

“La donna dalle mille vite”, “Il dubbio amoroso una perversa ossessione”. Sono i titoli degli articoli pubblicati di recente sulla rivista di divulgazione scientifica Mind – Mente & cervello, a cura degli psicoterapeuti cognitivisti Cecilia Laglia e Giuseppe Femia. A partire dalla scorsa estate, infatti, un gruppo di psicologi e psicoterapeuti che lavora e opera nel centro clinico della scuola di psicoterapia cognitivo comportamentale APC SPC di Roma, diretta dal neuropsichiatria infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini, contribuisce alla stesura di casi clinici sul mensile di neuroscienze e psicologia.
Gli articoli finora pubblicati, sottoposti alla supervisione dello psicologo e psicoterapeuta Andrea Gragnani, approfondiscono due tematiche molto comuni nella psicopatologia clinica: “La donna dalle mille vite” analizza il legame tra il Disturbo istrionico di personalità e le carenze di sicurezza e accudimento amorevole durante l’infanzia; “Il dubbio amoroso una perversa ossessione” affronta aspetti del Disturbo ossessivo compulsivo nel rapporto sentimentale.
La pubblicazione di articoli su casi evidenziati durante l’esperienza professionale all’interno della scuola romana proseguirà nei mesi a venire.
Riconducibili a psicopatologie comunemente affrontate nel percorso di psicoterapia, i casi scelti si distinguono per singolarità o attenzione clinica. In particolare, si affronta l’inquadramento diagnostico, che fa riferimento ai criteri del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), e vengono delineate le caratteristiche cardine del disturbo, il funzionamento del paziente, la proposta di trattamento e l’eventuale esito dello stesso.
Di seguito i link degli articoli finora pubblicati:

La donna dalle mille vite
Quando mancano aspetti fondamentali dell’infanzia, come senso di sicurezza e accudimento amorevole, si può arrivare a soffrire di disturbo istrionico di personalità (DSM-5), che si caratterizza per un’emotività pervasiva ed eccessiva e per un comportamento marcato di ricerca di attenzioni e approvazione da parte degli altri.
https://www.lescienze.it/mind/articoli/2020/06/26/news/la_donna_dalle_mille_vite-4748702/

Il dubbio amoroso una perversa ossessione
Sebbene sia innamorato della sua compagna, il signor A. è ossessionato dai dubbi. Colpa di un disturbo ossessivo-compulsivo che ha origini lontane
https://www.lescienze.it/mind/articoli/2020/12/30/news/il_dubbio_amoroso_una_perversa_ossessione-4861163/

Su la mascherina, giù la maschera

di Benedetto Astiaso Garcia

Finito il carnevale le maschere si abbassano, permettendo a ogni ferita di divenire una medaglia

Il Covid-19 accompagna attualmente l’uomo moderno, stanco viandante, nel viaggio della vita, rendendo il suo zaino sempre più pesante, le sue gambe affaticate, la sua testa un groviglio di rovi. Ricordi, pensieri, emozioni e sensazioni somatiche vengono riattivate dal più grande fattore di stress che la società moderna abbia mai dovuto fronteggiare a partire dal secondo dopoguerra. Monetina che cade dentro un pozzo, la pandemia sviluppa, infatti, un rumore assordante dentro ogni persona, fungendo da cassa di risonanza per tutto ciò che vi era sepolto (ansia, solitudine, vulnerabilità umorale, isolamento sociale, preoccupazione per il proprio stato di salute, abbandono, senso di colpa, rabbia, sospettosità interpersonale).

Vestiti solo di una mascherina ben aderente al viso, si genera in noi la scoperta di una precarietà psicologica che a lungo le strategie di coping (meccanismi psicologici messi in atto per fronteggiare problemi emotivi), hanno sommerso: eccoci nudi di fronte a uno specchio a contemplare le ferite della nostra storia, costretti a entrare in una realtà non sempre facile da fronteggiare.

Obbligato a scendere dalla ruota all’interno della quale amava correre, il criceto si rende conto della gabbia in cui abita da tempo. L’alienante velocità cede il passo alla riflessione, l’illusione cala il suo velo, i processi di negazione vengono meno. La vita diviene un video in modalità slow motion, capace di far osservare con maggior dettaglio ogni piccolo particolare… Il tempo si fa denso scorrendo sul calendario, al pari di un farmaco anti reflusso che scivola sornione nella gola… La qualità pixelata dei colori lascia il posto a un innovativo HD, tanto luminoso da guardare quanto destabilizzante, poiché poco abituati a farlo.

La percezione di sé, della propria vita passata e della qualità relazionale appare improvvisamente maggiormente definita, illuminata, al punto da poter abbagliare. Come cera al sole la maschera si scioglie, permettendo di vedere i propri demoni, nucleari e profondi, tanto vicino da dover rievocare il detto dantesco “ecco il luogo dove conviene armarsi di coraggio”. È proprio attraverso il coraggio che fissare il sole diviene l’unica modalità per prendere consapevolezza della propria vita, per lavorare sui propri vissuti e accettare ciò che a lungo è stato nascosto da una narcotizzante e narcisistica modalità di affrontare la realtà.

Il Covid-19 ha aperto il vaso di Pandora, lasciando fuoriuscire i veri mali che affliggono l’uomo e che fino a poco fa erano più o meno goffamente celati. La relazione, seppur stravolta, diviene asse portante di un mondo che scricchiola: finito il carnevale prendiamo atto di noi stessi e dell’altro, percependo la pericolosità di poterci rendere conto di chi siamo realmente.

Conviene veramente prendere atto di chi siamo? Occorreva davvero aprire il vaso di Pandora? Questa volta la storia ha scelto per noi, ponendoci in una condizione tanto delicata quanto privilegiata. L’individuo si avvicina a sé, ricominciando a sentire i profumi della propria storia: questo perché, al pari di quando si osserva un’opera impressionista, la qualità delle proprie relazioni viene compresa meglio solo ponendosi a una certa distanza. Forse realmente per aggiustarci dobbiamo prima romperci in mille pezzi… Forse realmente una ferita che pensavamo avesse smesso di sanguinare è una nuova occasione di crescita, individuale e relazionale.

Ade ha rapito Proserpina, ma, come racconta il mito, la primavera è sempre destinata a tornare. Come diceva il poeta Pablo Neruda, “potranno recidere tutti i fiori ma non potranno fermare la primavera”. Speriamo che in quel momento non avremo solamente il desiderio di toglierci una scomoda mascherina per rimettere la nostra comoda maschera.